“Sono
l’unica a sognare una versione rock del Kol Nidre?” Così scrissi tempo fa su Twitter. Bisogna stare attenti ai
desideri… c’è il rischio che siano già stati realizzati, da qualche parte.
Infatti, se non esiste un Kol Nidre accompagnato
dalle chitarre elettriche, sono pur sempre reali gli ebrei punk.
Punk
Jews (2012;
regia di Jesse Zook Mann) è un docufilm sulla vita di coloro che sono riusciti
a fondere il proprio retaggio religioso con la subcultura punk, intesa come
coltivazione di tutto ciò che è “rottura degli schemi”. Per rendere
immediatamente chiaro di cosa si sta parlando, il film si apre con il cantante
newyorkese Yishai: scritte in ebraico sulla cuffia, acconciatura chassidica e
una potentissima voce da punk rock per urlare il suo «GOD!». Questo grido spalanca le immagini di Long Island e dei
concerti del gruppo Moshiach Oi!, ovvero “Messia”
seguito dall’espressione yiddish “oy!” (indicante angoscia). “Oi!” era anche il
nome di un movimento punk rock britannico degli anni ’70. Rabbini e residenti hanno
da ridire sul volume della musica, ma… «se i vicini non si lamentano, è
probabile che il concerto non sia autentico». Ovviamente, non sono mancate le
accuse di “sacrilegio”. Ma il cantante ha risposto che il punk rock è una
preghiera ancor più intensa di quella ordinaria (per la serie “Chi canta prega
due volte”…). Rubando qualche termine a Hegel, possiamo dire che la vita di
Yishai ha conosciuto tre fasi: la tesi (crescita in una famiglia ebraica), l’antitesi
(adolescenza ribelle e droga) e la
sintesi (la fusione tra le proprie radici e la subcultura punk). Qualcosa del
genere è accaduto anche a Kal Holczler, ma su un registro più drammatico. Kal
crebbe a New Square (quartiere settentrionale di New York), in una comunità
ultraortodossa. Si ritrovò a subire abusi sessuali da bambino da parte di un
uomo influente. Come lui, altri andarono incontro alla stessa sorte, senza
poterne parlare con le famiglie. I rischi erano molteplici: non essere creduti,
sollevare scalpore in una collettività allergica a qualunque novità, venir
puniti per aver violato il tabù del sesso, o semplicemente non trovare le
parole adatte. Kal soffocò il trauma nella tossicodipendenza, finché non fondò l’associazione
Voices of Dignity. Lo scopo di quest’ultima
è sollevare pubblicamente la questione e insegnare alle famiglie come
accorgersi degli abusi.
Quando il problema è semplicemente l’essere
ebrei senza potersi riconoscere in alcuna comunità specifica, i newyorkesi
possono risolvere il problema frequentando Cholent:
un raduno underground che prende il
nome dal tipico stufato misto dello Shabbat. Unica prescrizione: sentirsi a proprio agio.
Giusto per non farsi mancare nessuno
stereotipo, c’è anche la vecchietta ebrea. Ma l’Incredibile Amy, con le sue
danze yoga, non ha nessuna voglia di essere una “nonnina da manuale”. Così si è
reinventata, dopo un incidente che l’ha strappata alle adorate arti marziali.
Da parte propria, il cantante hip
hop Y-Love ricorda che essere ebrei non comporta necessariamente avere la pelle bianca –
un concetto tutt’altro che scontato, negli Stati Uniti. Tanto la sua identità
quanto la sua musica sono fatte di commistione: la commistione è unità e l’unità
è intrinsecamente costruttiva.
Invece, i Sukkos Mob mantengono, per le strade di New York, la tradizione del teatro yiddish
americano.
In un modo o nell’altro, l’intento è
sempre lo stesso: rivendicare la religione come qualcosa che l’uomo costruisce,
anziché esserne costruito.
Pubblicato su Uqbar Love, N. 134 (7 maggio 2015), pp. 17-18.
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