Come
un guscio, il battello galleggia fra lo smalto del cielo e il cristallo vivo
dell’acqua. A larghi giri, l’isoletta di San Giulio d’Orta si avvicina. Il
traghetto approda di fronte all’imboccatura della basilica, che sale verso il
cuore della terraferma. Così, i visitatori ripercorrono incessantemente il
cammino di quel sacerdote greco, Giulio da Egina, che portò il cristianesimo su
questo fazzoletto di terra, soppiantando i culti precedenti (IV sec.). Le
reliquie di Giulio sono custodite nella cripta della basilica, insieme a quelle
degli altri “Santi Isolani”. Mai come qui è evidente quanto i morti siano il
cuore dei vivi.
Risalgo la scalinata della basilica
e percorro la viuzza fra gli edifici carichi di secoli. Il sapore delle
costruzioni è medioevale, ma alcune – come l’Antica Bottega San Giulio –
vantano tracce del XV e del XVI secolo. Il Ristoro, al mio arrivo, non è
aperto.
Per arrivare all’abbazia benedettina
Mater Ecclesiae, imbocco la cosiddetta “Via del Silenzio”. In quattro lingue, i
cartelli che la punteggiano rivolgono i loro inviti ai pellegrini:
Ascolta il
silenzio.
Ascolta l’acqua,
il vento, i tuoi passi…
Nel silenzio
accetti e comprendi.
Nel silenzio
accogli tutto.
Il silenzio è il
linguaggio dell’amore.
Il silenzio è la
pace dell’io.
Il silenzio è
musica e armonia.
Il silenzio è
verità e preghiera.
Nel silenzio
incontri il Maestro.
Nel silenzio
respiri Dio.
La
monaca portinaia è giovane e ha splendidi occhi celesti. Nel suo fare
affettuoso e disinvolto, non si legge la clausura. In effetti, dati la mansione
di lei e il flusso di visitatori all’abbazia, la sua consuetudine con i
forestieri non è solo una mia impressione. Più d’una volta, le scritte rivolte
ai visitatori rammentano che quello non è un “luogo di turismo”, che bisogna
spegnere i cellulari e che il famoso pane
di San Giulio (il dolce locale) viene distribuito dalle monache solo il 31
gennaio, per la festa omonima. La portineria è colma di libri e articoli
religiosi, da cedere in cambio di offerte. La grande maggioranza dei volumi è
firmata da Madre Anna Maria Cànopi, la badessa: una mole impressionante di
scritti.
La monaca portinaia mi indica orari
e luoghi. Mi cede le chiavi di una stanza in foresteria, in cambio di un
documento di identità. La foresteria si compone di diverse casette, che erano
le canoniche dell’isola nel IX sec. Un pozzo fa bella mostra di sé, davanti
all’ingresso del monastero. Alcune iscrizioni rimangono a ricordare come, dal
1842 al 1947, quell’edificio ospitasse un seminario. Dalla piazza di Orta,
l’impressione è che tutta l’isoletta sia abitata da propaggini dell’abbazia. In
realtà, vi sono anche alcune case private. Famiglie svizzere tedesche e
italiane, una poetessa inglese e – soprattutto – Maria Antonietta: l’unica
isolana D.O.C. È lei a gestire l’Antica Bottega. Apparentemente ruvida di
carattere, si dimostra ospitale e generosa, non appena qualcuno le va a genio.
Mi spiega che i suoi cari riposano a San Filiberto, una frazione di Pella, il
cui cimitero ospita anche le monache defunte e il vescovo che fondò l’abbazia,
Aldo Del Monte. M’invita a visitarlo con lei – un altro breve viaggio in
battello. Anche il fratello di Maria Antonietta era battelliere; ora, è una
cara memoria dell’isola, soprattutto per l’associazione dei canottieri.
La giornata degli ospiti,
naturalmente, ruota attorno ai ritmi del monastero. La cosa più ardua è alzarsi
per il Mattutino delle 4:50. A quell’ora, naturalmente, regna il buio; chi sale
alla cappella servendosi dello scalone esterno, può ammirare le luci che
disegnano i paesi sulla riva del lago.
Come in tutti i monasteri, la
giornata è scandita dai salmi, al suono della cetra e dell’organo. Tra le
maglie del cancelletto ligneo che delimita il coro, si coglie la processione
delle monache, col fluttuare dei loro veli, che prendono posto nei loro banchi.
L’anziana badessa, Madre Cànopi, emette una voce sottilissima dal suo scranno.
Da vicino, è ancora più minuta e dolce. Riceve gli ospiti in un salone
luminoso, con vista sul lago – la stessa sala dove le monache fanno trovare
agli ospiti un sano caffè, prima e dopo il Mattutino. Sembra impensabile, ora,
che quel luogo possa aver conosciuto incuria e ristrutturazione. Eppure, quando
le prime sei monache arrivarono qui nel 1973, trovarono qualcosa di abbastanza
simile a un rudere. Ora, le consorelle sono circa un’ottantina e l’abbazia
conta anche due priorati: uno a Saint-Oyen, in Valle d’Aosta, e l’altro a
Fossano (Cuneo).
Oltre
alla basilica e al monastero, si fa notare una maestosa torre campanaria con
trifore (XII sec.).
I due giorni a cavallo del mio
pernottamento in foresteria sono meravigliosi. Ovunque, un sole nitido fa
risplendere il lago, il cielo e le palme come fossero di maiolica. I germani
reali increspano l’acqua con grazia. I monti sono una cornice verde. Mi fa
sorridere il fatto che la “piazza del paese” sia un praticello di margherite.
Alcuni vicoletti con volta a botte discendono fino all’orlo del lago, dove
posso toccarne l’acqua con le dita.
Quando ascolto lo sciacquio che sale
dalla finestra della mia camera, mi vien da pensar che – in un luogo come
questo – non abbia senso domandarsi se Dio esista o meno. Dio è il silenzio
delle monache, non meno che il loro canto e il lavoro delle loro mani. Si
rivela insidiosa anche la contrapposizione fra “vita contemplativa” e
“partecipazione alla società”. L’esistenza di un luogo protetto come un
monastero ha senso, per l’appunto, proprio in vista del mondo esterno. La
funzione di quella quiete gelosamente custodita è fornire un’oasi in cui
“staccare la spina”, per poi tornare nel “mondo” con più lucidità e gusto di
vivere. Qualcuna sceglie, invece, di
rimanere per sempre, a guardia di quel metaforico giardino delle Esperidi.
Non è neppure “decorativo” il fatto
che l’abbazia sorga in un luogo di grande bellezza naturale. La generosità di
Gea ispirò già coloro che precedettero l’arrivo del Cristianesimo. La
percezione di una Natura ammaliante e potente fece nascere la religione nel
cuore dell’uomo e continua a farlo, anche ora che i fedeli cercano il “Creatore
trascendente”. Le difese naturali di un’isola e lo stile di vita monastico,
poi, si aiutano vicendevolmente: la collocazione di San Giulio d’Orta protegge
le religiose dal rumore e dal caos; la sobrietà mantenuta dalle benedettine,
poi, impedisce all’industria del turismo di fagocitare irresponsabilmente
questa fragile perla, senza per questo sottrarla alle visite.
Quella che ho indicato come “Via del
Silenzio” è la strada principale del paesino. Percorsa all’inverso, diviene la
“Via della Meditazione”:
Ogni viaggio
comincia da vicino.
I muri sono
nella mente.
Apri il tuo
essere.
Il momento è
ora, qui, adesso.
Abbandona l’io e
il mio.
Accettati,
cresci, matura.
Sii semplice,
sii te stesso.
Il saggio
sbaglia e sorride.
Se arrivi a
essere ciò che sei, sei tutto.
Quando sei
consapevole, il viaggio è finito.
Pubblicato su Uqbar Love N. 131, 16 aprile 2015, pp. 7- 9.
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