Pensando
ai miei primi incontri con la Politica, le
reazioni che ricordo sono sempre di diffidenza. So bene d’averle mutuate in
famiglia e che sono state nutrite da un luoghi comuni inveterati come la
pietra: La politica fa schifo, è tutto un
“magna magna”, è un affare losco. Non intendo, qui, approfondire le radici
di questi stereotipi (lavoro che non posso fare al momento e i cui risultati,
ahimè, sarebbero prevedibilmente deprimenti).
Più tardi, quel poco di educazione
civica che ho ricevuto nelle scuole pubbliche mi ha permesso di realizzare
questo: la politica è come la guida di
una nave. Se la nave affonda, affondiamo anche noi che vi stiamo sopra. Da
allora (epoca delle scuole medie), sono stata vaccinata alla radice contro la
tentazione del qualunquismo.
Sono rimaste, però, alcune
difficoltà. E, ora che sono non matura, ma un po’ meno candida rispetto a dieci
anni fa, ho anche modo di comprenderne il motivo.
Appartengo
alla classe che non c’è.
Sono
approdata al mondo dell’università pubblica e dell’istruzione umanistica
provenendo da una famiglia di piccoli commercianti ex-contadini. Ergo, non
posso identificarmi col mondo brillante delle dinastie di avvocati, architetti
e medici che fanno studiare i rampolli. Non posso identificarmi con coloro che
sono figli e nipoti di accademici e, pertanto, nel mondo dell’università
entrano nascendo con la camicia. Però,
non posso nemmeno sentirmi incondizionatamente vicina a quel “popolo” inteso
come quella parte della cittadinanza legata al territorio e alle tradizioni,
lontana anni luce dai problemi complessi della cosa pubblica e ignara di cosa
sia il bisogno di ampi orizzonti. Sono
un mezzo-e-mezzo fra il mondo delle mie radici e quello della mia vocazione.
Trovare la mia sfera di collocazione non sarà né immediato, né indolore – per
quanto inevitabile.
Oltre a questo squisito dilemma
dovuto alla mia biografia personale, ce n’è uno assai meno privato. Ovvero,
quella classe che non c’è. L’arcipelago
dei piccoli commercianti, degli artigiani, delle modeste attività a gestione
familiare, che costituisce tutt’oggi il tessuto economico nelle aree
provinciali (ma quo usque tandem?).
L’arcipelago di coloro che, nella cabina elettorale, si trovano a dover
scegliere fra le seguenti possibilità:
1.
Chi
propone tagli alle imposte sulle imprese (e sarebbe ossigeno, per questi
elettori!), ma sostiene un tipo di liberismo che favorisce il grande capitale e strangola i piccoli
esercizi che non possono sostenere la concorrenza;
2. Chi propone di
sostenere i servizi pubblici, lo stato sociale, l’istruzione pubblica a basso
costo (tutte cose di cui questi non abbienti elettori hanno bisogno), ma li
vuol finanziare con ulteriori tasse sulle attività private (sì, anche quelle
piccole e con rendite non eccelse);
3. Movimenti
populisti che, magari, centrano perfettamente i problemi di questi elettori, ma
vogliono risolverli con metodi sbrigativi che offendono il comune senso
dell’intelligenza – o dell’umanità;
4.
Programmi
semisconosciuti e che, per questi elettori, parlano di cose affini al sesso
degli angeli.
Davanti
a questo delizioso quadretto, la reazione dell’ “arcipelago dei piccoli
autonomi” è invariabilmente una disaffezione alle urne, un votare tappandosi il naso o un rivolgersi a
movimenti extraparlamentari di dubbia costituzionalità.
Voi, intellettuali da salotto che
avete avuto un’istruzione universitaria quasi per eredità avita (e che mi
farete sempre storcere il naso, anche qualora dovessi sedere fra voi): non
liquidate tutto questo come qualunquismo o
ignoranza. Sì, tanti lavoratori
autonomi sono sicuramente più ignoranti di voi. Ma… dato che nessuno “nasce
imparato”, chi ha mancato al dovere di istruirli? Il disagio dell’Arcipelago ha radici oggettive. E le ha nella
vostra incapacità, nel vostro abdicare alla vostra missione. Perché il problema
resterà, finché chi ha gli strumenti intellettuali per creare una coscienza di classe non saprà rivolgersi
anche ai “piccoli autonomi”. Finché non si griderà dai tetti che questi sono lavoratori, piantandola con la miopia
che li accomuna ai “padroni”. Di questo genere è la rabbia che la classe inesistente prova verso la sinistra e che la porta ad abbracciare
perfino il becerismo, pur di far sentire il proprio richiamo. Occorre un Partito dei piccoli commercianti e degli
artigiani istruito e consapevole, capace di comprendere le esigenze
concrete del suo elettorato senza chiuderle in una forma di egoismo collettivo
populista. Questo non si potrà fare, se non di concerto con un’informazione
divulgativa accurata (cartacea, audiovisiva, on line) e con un’istruzione
pubblica che non rifiuti il rischio del pensiero
critico. Forse, il ruolo sociopolitico dei mezzo-e-mezzo come me è proprio
questo.
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