Bram Stoker's Dracula (1992; regia di
Francis Ford Coppola) è noto come “la versione cinematografica più fedele di Dracula”. Si tratta di una fedeltà non
tanto alla lettera, quanto alla sostanza del romanzo. Il film ostenta ciò che
il libro adombra. I fantasmi che costruiscono le vicende dei protagonisti
diventano carne e figura. Le lunari ed eteree vampire del castello divengono
procaci, aggressive e ferine (penso che nominare Monica Bellucci renda l’idea).
Se il Dracula letterario era evanescente e proteiforme, quello cinematografico
di Gary Oldman cambia aspetto sotto i nostri occhi: da stravagante nobile
romeno a guerriero, da giovane gentiluomo a belva. Lo scrittore poteva giocare
intorno al “buco nero” in cui il suo vampiro consisteva sostanzialmente: non c’era
alcun “Dracula oggettivo” in grado di autodefinirsi, presentarsi al lettore,
avere un’esistenza autonoma. C’era solo la mole di diari, lettere e ritagli di
giornale in cui i personaggi umani riportavano i propri punti di vista.
Cosicché, fino all’ultimo, per il lettore rimaneva il dubbio sulla realtà dei
fatti narrati e sulla salute mentale dei protagonisti.
Sul grande schermo, questo gioco non
è possibile oltre un certo punto. Il cinema è visività, concretezza. Ecco che
Dracula può e deve diventare un personaggio autonomo: una figura mutevole ma
individuabile, con cui si può parlare e combattere. Che si può perfino amare.
Diviene addirittura possibile porlo
in una cornice storica, quella suggerita dallo stesso Stoker. Il film comincia
con le guerre di Vlad l’Impalatore, voivoda di Valacchia (1431 ca. – 1476/77)
contro i Turchi. Il copione gli attribuisce una sposa amatissima, di nome
Elizaveta e interpretata dalla stessa Winona Ryder che dà il volto all’eroina
Mina Harker. Della moglie di Vlad, storicamente, non si conosce il nome; pare
che, per paura delle torture dei Turchi, si fosse gettata in un fiume, poi
detto “Fiume della Principessa”. Coppola riprende la vicenda sviluppandola in
senso romanzesco e fa di questa morte un suicidio per amore, in seguito alla
falsa notizia della morte di Vlad. Un sacerdote proclama Elizaveta dannata per
questo e Dracula si trasforma in una creatura demoniaca, per seguire la sposa
nella sua pretesa dannazione. Si tratta di un’aggiunta consistente e che, di
per sé, condiziona pesantemente l’interpretazione della storia. Però, non cade a
sproposito. Rende ragione dell’ossessione del vampiro per le donne e del suo
legame “privilegiato” con Mina, la reincarnazione del suo amore. Contribuisce
anche a portare alla luce quanto di sottilmente erotico si trovava nel romanzo –
rendendolo inspiegabilmente irresistibile per generazioni. Dracula è la
passione che non muore mai, che non può essere soffocata nemmeno dall’inamidata
società vittoriana e che è in grado di trasfigurare i volti che riteniamo di
conoscere – e amare. Così come Eros, o come Zeus concupiscente, Dracula si
trasforma di continuo, rimanendo sempre se stesso. L’amore è idealità così come
è animalità – c’è sempre da imparare dalle bestie, che mostrano all’uomo i suoi
lati nascosti. E umanissimo è il grido di Dracula rivolto a Mina: “Non
guardarmi!” La belva che si concede ogni sfrenatezza, davanti al volto amato,
riacquista un senso della vergogna, una primitiva coscienza. Mentre lo zelo del
santo si rivela odio per una parte di se stesso che non riesce a reprimere, l’emarginazione
di un demonio è un disperato grido d’amore. Il finale, così come nel romanzo, è
dettato da Mina, l’anello di congiunzione fra il mondo del lecito e quello dell’indicibile.
La voce di Annie Lennox consegna il dolce, straziante messaggio della storia.
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