La
prima cosa che mi vien da dire è che lo trovo un film intensamente maschile. Anche se si svolge sotto il segno
d’un nome di donna, Malèna (2000).
Regia e sceneggiatura di Giuseppe
Tornatore, colonna sonora di Ennio Morricone e Monica Bellucci nel ruolo
eponimo: tutto “nostrano”, insomma. Anche l’ambientazione è posta in un
villaggio siciliano, di quelli che l’immaginario “settentrionale” ama dipingere
come “arcaici”. Di sicuro, G. Tornatore ne fa un luogo di chiusura, aridità del
cuore prima ancora che del pensiero: uno scoglio indurito in frustrazioni e
desideri repressi. Quasi per contrappasso, qui è nata una sirena, il simbolo di
tutto quel che il villaggio brama e rimuove: Malèna, appunto.
Con la sua cornice temporale (i
primi anni ’40) e la presenza della “grande Storia”, verrebbe la tentazione di
definirlo “neorealista”. Ma è troppo preponderante la figura d’un individuo,
rispetto allo “spaccato di realtà”. Il film ruota attorno all’ottica e ai sogni
del tredicenne Renato (Giuseppe Sulfaro). La donna, i paesani, la guerra
ricevono da lui la propria fisionomia. A volte, sono messi in scena veri e
propri sogni a occhi aperti.
“Avevo
tredici anni ed era un giorno di fine primavera 1940 quando la vidi per la
prima volta… Me lo ricordo benissimo perché quel pomeriggio, mentre Mussolini
dichiarava guerra a Francia e Gran Bretagna, io ebbi la mia prima bicicletta…”
Queste parole del protagonista, poste in apertura, riassumono bene il
meccanismo narrativo. Esso consiste nel mostrare la normalità d’un’adolescenza
maschile inserita nell’abnormità della guerra. Fra questi due piani, si pone il
diaframma della società di villaggio:
costruita sulla negazione dell’eros, lo esorcizza colpendo chi lo incarna. Come
Malèna, donna matura e inarrivabile di cui Renato s’innamora, più o meno come
tutti i suoi coetanei. Quella Venere di provincia (chiamiamo pure in causa J.
W. Goethe e il suo eterno femminino)
lo introduce nella pubertà.
Ciò vale
per gli aspetti fisiologici, per certi “riti” come l’accesso alla pornografia o
il furto di “feticci”. Ad accorgersi di tutto ciò –ovviamente, si può dire- è
il padre (Luciano Federico) del ragazzino, fra censura
feroce prima e complicità poi. In un certo senso, lo scontro generazionale è
anche un riconoscimento delle comuni tappe della crescita. Da questo
particolare conflitto, l’elemento femminile della famiglia è escluso. Così come
non c’è comunicazione autentica, fra
gli uomini e le donne del villaggio. I primi sono chiusi nelle proprie
fantasticherie, le seconde nelle proprie invidie. Malèna è altro da entrambi. Malèna è uno spartiacque fra loro. Più che un
individuo, è un’icona. Parla
pochissimo, non guarda in faccia nessuno. Sa di essere un’aliena e si “salva”
rifiutando rapporti comunque impossibili. I suoi sentimenti emergono per gesti
discretissimi, sia pure intensi: stringe al petto la foto del marito in guerra;
va a visitare l’anziano padre. Paradossalmente, sebbene abbia tutti gli uomini ai
suoi piedi, solo questi due fanno davvero parte della sua vita. Del resto,
l’amore non è amore, senza fiducia e stima. Renato lo capisce ed è questo a
farlo diventare, da semplice maschio, uomo
in senso pieno. Nel suo sguardo, la “bella infelice” diventa “Madonna” e “sirena” contemporaneamente,
oggetto d’una “cavalleria rusticana”.
La complessità dei suoi sentimenti lo avvicina alla sfera degli “esclusi”, coloro che si distaccano
dalla “primitività colpevole” del villaggio. Può così dire: “Io sono l’unico a
conoscere la verità…” Quella verità
su Malèna che, per ironia della sorte, è pubblicata dalla retorica più vuota.
La “maliarda”, la “poco di buono” è una moglie fedele e figlia affettuosa, che
porta la propria straordinaria bellezza come una condanna. Simile, nel cuore,
alla tipica casalinga dell’epoca, cede alla prostituzione così come Rosario
Chiàrchiaro si fa jettatore professionista, ne La patente di L. Pirandello. Ovvero: se la cattiva fama è
indelebile, che almeno sia fonte di sostentamento.
Malèna
corre verso il proprio destino di φαρμακός, capro espiatorio in una macabra e
primordiale “purificazione”. Di rito, avverrà anche la riabilitazione, quando
il ritorno nell’ordine matrimoniale e una lieve sfioritura avranno limitato la
sua aura perturbante.
Immancabile, come in ogni film di G.
Tornatore, la tematica del cinema. I
sogni in celluloide diventano quelli personali di Renato (e viceversa), per una
magia di cui la formula non è forse ancora stata scritta, ma che rimane la
cifra della settima arte.
Fra Malèna e il suo giovanissimo
“cavalier servente” non ci sarà mai un incontro vero e proprio. Ciò libera il
primo amore del ragazzo dal peso di carne e tempo. Rimarrà, in un’esistenza
banale, un’immagine luminosa. “È forse poco per colmare tutta la vita di un
uomo?” (F. Dostoevskij).
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