Manerbio, 17 luglio 2013
Caro
Platone,
dubito
fortemente che questa mia possa pervenirti, date le distanze di spazio e tempo
che ci separano. Ma, spesso, le lettere più importanti sono scritte soprattutto
a se stessi. Se vuoi sapere chi io sia, ti basti questo: sono una per cui,
probabilmente, non ci sarebbe posto nella tua utopia.
Tempo fa, ho esposto qualche considerazione
circa il tipo di impatto che hai avuto sulla mentalità diffusa. Sono giunta a
fantasticare d’ucciderti –simbolicamente. Perché sei “ingombrante”. Perché la
tua fissazione per il risanamento della cosa pubblica apre la strada a una
malattia peggiore: la nevrosi.
Per questo, sono stata incapace
dell’immediato entusiasmo di Matteo Merogno, leggendo i primi quattro libri
della tua Repubblica. In questi, ti
dilunghi su cosa sia la giustizia; la definisci prima a livello pubblico, poi
individuale. Il tuo Socrate, una volta tanto, è messo al muro dall’intellighenzia ateniese: dai giovani
istruiti e dai loro scafati maestri, come Trasimaco. Diciamo pure che, anche se
l’arroganza di costui è stomachevole, è difficile non dargli ragione. “Il
giusto non è altro se non l’utile del più forte” (338c). Ovvero: “Ogni forma di
potere stabilisce dunque le leggi in funzione del proprio utile: la democrazia
le farà democratiche, la tirannide tiranniche, e similmente le altre. E una
volta stabilite, sanciscono che giusto per i sudditi è ciò che è utile ai
detentori del potere, e puniscono i trasgressori come colpevoli di illegalità e
ingiustizia” (338e). Tu non parli ancora di “leggi ad personam”. Però, questa locuzione codifica l’estremizzazione di
ciò che il tuo Trasimaco espone. Anche non volendo dilungarsi su ciò, lo scorso governo tecnico è diventato famoso per misure presentate come
“salvataggio dell’Italia”, sebbene dell’Italia abbiano scontentato la maggior
parte. Un governo guidato da un accademico esperto di economia a cosa guarda?
All’alta finanza, ovvio. Gli “ingiusti” sono commercianti, artigiani,
esercenti, lavoratori, famiglie e tutti coloro il cui problema non è “Come
arricchirsi?” (magari!), ma: “Come tirare avanti con decenza?” Più che di
“complotto delle banche”, parlerei di “deformazione professionale”. O di
“trasimachismo”?
In un’Atene che crollava
(politicamente) a pezzi, dissanguata dalla guerra del Peloponneso, forse già
reduce dalla fallita spedizione in Sicilia, c’erano solo due possibilità:
affondare, o smetterla coi giochetti di carrierismo. Anche qui e ora non è più
il caso di guardare alla politica come a una gallina dalle uova d’oro. Dopo che
il risanamento delle finanze pubbliche è diventata la questione numero uno,
sarebbe ancora così furbo pensare di banchettare in una mangiatoia bucata? La nave che
affonda affonda per tutti. Peccato che i salvagenti non siano pronti, né
prefabbricabili.
Tu hai visto, a distanza di pochi
anni, morire il democratico Polemarco e il tuo maestro Socrate (se non
filo-oligarchico, perlomeno amico dei rampolli aristocratici). Due posizioni
politiche opposte, una sola condanna a morte. Per odio di parte, non per altro.
Nella democrazia già non credevi, in un’epoca in cui essa non era ancora un
totem. Nell’oligarchia, nel governo di chi aveva l’istruzione e l’educazione
familiare maggiormente vocate all’arte politica, non potevi più credere. Non
riuscivi più a vederla come garanzia di buon governo, dopo che i suoi esponenti
avevano sacrificato “il Giusto” ai propri sospetti. Non esisteva, sulla terra, un mondo in cui tu potessi vivere bene. È
questo che mi spinge a cercar la tua complicità. È stato sempre questo a far sì
che la Repubblica sia stata
considerata meno “spendibile” di altre tue opere. Come imitare un assetto che,
letteralmente, non sta né in cielo, né in terra? Anche se ciò non significa che
sia campato in aria. Le tue osservazioni sui comportamenti umani sono acute.
Cogli la nostra necessità di appoggiarci gli uni agli altri per soddisfare i
rispettivi bisogni (369b ss.). Poni l’origine delle formazioni statuali nelle
necessità materiali e innegabili. Un disincanto antiretorico che ti fa onore, a
mio parere. Accetti anche che la raffinatezza dei tuoi interlocutori chieda di
più (372e). Io stessa sarei perplessa, se dovessi vivere in un “idillio agreste”
così povero d’arti e lettere come tu l’hai dapprima proposto (372a-d). O,
forse, sono solo l’amante dei miei morbi.
Durature, addirittura pre-freudiane,
sono le tue considerazioni sulla vita intrapsichica. Individui i basic instincts, il desiderio di stima e autostima, il raziocinio
che cerca una vita quanto più priva d’attriti (435 ss.). Questa famosa
tripartizione è forse grossolana, perché non rende conto bene delle differenze
individuali. Ma funziona, proprio per
la sua generalità. Quante volte la nostra educazione ci ha imposto di “darci
una regolata”? O di “far bella figura”? Magari senza saperlo, i nostri bambini
e ragazzi vengono ancora educati secondo il tuo precetto: sottomettere le
pulsioni al “raziocinio” e alla “dignità”.
Certo, mi permetto di dirti che ci
sono controindicazioni che non hai previsto. Non hai pensato, come dicevamo,
alla nevrosi –o, perlomeno, la “cura” a base di educazione e autocontrollo non
basta. Il mostro multiforme delle pulsioni vuole la propria parte. Se non l’ha,
si vendica disintegrando l’unità psichica e sociale. Una persona o una società che non si provveda di spazi di sfogo si
autocondanna. Del resto, “sfogo” non significa per forza vandalismo,
ubriachezza, rissa o orgia. Perché non sposarlo all’arguzia, alla creatività,
al rovesciamento carnevalesco? Lo si fece e si continua a farlo. I pochi che ne
sono in grado sono guardati come lunatici, ma sono assai più sani dei “normali”
che vomitano regolarmente l’alcool in eccesso o s’inguaiano per vie veneree.
Altro argomento che mi è molto caro
è la μουσική, la produzione artistico-letteraria (376e ss.). Ti dico subito
che, da post-romantica quale sono, non mi ritengo compatibile con una nozione
dell’arte come puramente “educativa” e asservita allo Stato. Anche se il suo
aspetto formativo è innegabile. Come il cibo che mangiamo, gli input musicali, letterari, visivi
vengono metabolizzati e diventano parte di noi. Le tue considerazioni su ciò
che (non) si dovrebbe ascoltare/cantare nella comunità ideale si avvicinano
alla questione dell’ “inquinamento
cognitivo”: parole e immagini largamente diffuse che nutrono una mentalità
nociva. Ad Atene, si trattava di canti corali, teatro, recitazioni epiche,
trasmessi in una comunità compatta. Per noi, la questione si pone a livello di
masse (decine di milioni di persone) raggiunte da pannelli pubblicitari, case
editrici, giornali, radio, Internet, televisione –soprattutto da questa. Come
noterebbe il buon Socrate, a noi manca quel contatto “a pelle” fra emittenti e
destinatari. Con un teleschermo non si dialoga, né ci si sente “una cosa sola”.
La sua luce patinata non può far da focolare. Non ha calore. Qui, forse, sta la
vera differenza fra la tua utopia e i nostri tempi. In un gruppo di pochi
“fratelli”, “nati dalla terra” (414d-e), è possibile raggiungere una concordia
e un’omogeneità culturale avvolgenti, in cui non vengano cancellati i volti di
nessuno. I nostri Stati, coi loro milioni di abitanti, sarebbero in grado,
tutt’al più, di diffondere un ipnotismo
mediatico a pioggia, plastificando e serializzando i messaggi. Così facendo,
non otterrebbero un homo sanus in
civitate sana, ma un’omologazione in cui l’uomo si perderebbe.
Probabilmente, non è la tua utopia a
essere inadatta a noi. Siamo noi a
essere inadeguati a essa.
Pazienza!
Erica
Platone,
La Repubblica, (“Classici greci e
latini”), a cura di Mario Vegetti, Milano, 2006, BUR.
Commenti
Posta un commento
Si avvisano i gentili lettori che (come è ovvio) non verranno approvati commenti scurrili, offese dirette, incitazioni all'odio di qualunque tipo, messaggi che violino la privacy o ledano l'onore di terzi. Si prega di considerare questo blog come uno spazio di confronto, così come è stato fatto finora, e non come uno "sfogatoio". Ci scusiamo per eventuali ritardi nella pubblicazione dei commenti: cause (tecnologiche) di forza maggiore. Grazie.