Lì
per lì, mi ha lasciato a bocca arida. Avevo il fresco ricordo del Ring des Nibelungen, del suo lussureggiante
vitalismo. Mi mancavano i riflessi dorati del Reno, ascoltando il Parsifal (1877-1882).
Quella del mio DVD era la
rappresentazione portata in scena a Berlino, Staatsoper unter den Linden, nel
1992. La Staatskapelle Berlin era diretta da Daniel Barenboim.
Richard
Wagner non è il mio preferito tra i compositori, ma mi ha attratto più volte.
Forse, perché i suoi libretti sono curati quanto le sue musiche. Forse, per via
delle sue famose “forme aperte”, che mi affascinano più delle meccaniche
ariette italiane (chiedo perdono a San… Remo).
Al Parsifal è stato dedicato il n° 63 (maggio/giugno 2013) del
bimestrale Classic Opera. Quirino
Principe, nell’opuscolo accompagnatorio del DVD, pone come fonte dell’opera il
poema Parzival (1200-1210 ca.;
1210-1220 secondo Richard Barber) di Wolfram von Eschenbach. In realtà, quella
di R. Wagner è una rielaborazione liberissima, che riprende sì elementi di
Wolfram (anche dal suo Titurel), ma
pure di Chrétien de Troyes, di Robert de Boron, della tradizione poetica sul
Graal, insomma. Allo stesso tempo, è una versione nuova rispetto a tutte
queste. A partire dalla grafia “Gral” e non “Graal”. Se quest’ultima è romanza,
la prima conterrebbe il digramma altotedesco gr: legato a “luce”, “splendore”, “scintillio”, secondo Q.
Principe. Questa luminosità è ciò che accomuna tutte le descrizioni del
misterioso oggetto, di volta in volta recipiente (Chrétien), pietra (Wolfram) o
reliquia dell’Ultima Cena (Robert). In ogni
caso, per dirla con J. Keats, è una thing of beauty che is a
joy for ever.
Le storie che
ruotano attorno al Graal/Gral sono sempre di ricerca. Il vero tesoro da recuperare, però, non è un oggetto. Per
Amfortas (Falk Struckmann, baritono) e i suoi Cavalieri del Gral è la serenità,
o, meglio, quell’integrità tipica di chi segue un ideale senza vacillare. Il
loro è di tipo monastico-guerriero (basti dire “Templari”). Il regista Harry
Kupfer pone la loro foresta sul Monsalvato in un caveau. Un modo sinistramente plastico di rendere il loro
“splendido isolamento”, la loro gelosia verso il tesoro di cui si beano. Questo
cordone sanitario, però, è stato violato dal contagio della Vita. Amfortas si è innamorato. Vedendo
l’amazzone Kundry (Waltraud Meier, soprano), si è lasciato sbigottire e ha
perduto la propria lancia. Una perdita non da poco, essendo l’arma un’altra
reliquia della Passione di Cristo. Essa è finita in mano al mago Klingsor
(Günter von Kannen, basso-baritono) ed ha aperto nel corpo di Amfortas una ferita che non si rimargina mai. Se
R. Wagner voleva dire che l’eros è piaga bruciante, non avrebbe potuto farlo
meglio.
Tuttavia, i Cavalieri e il loro re
non sono gli unici ad essere angustiati. Ogni personaggio, nel Parsifal, brancola in una propria
angoscia. Perfino Klingsor non sembra troppo trionfante del proprio trofeo. I
suoi sentimenti verso i “nemici” sono molto ambigui. Lui stesso avrebbe
desiderato essere un Cavaliere del Gral, salvo non reggere la regola monastica.
Ha finito per scegliere l’autoevirazione, grottesca
caricatura della castità di cui è incapace. È un anti-Amfortas e H. Kupfer
lo sottolinea, ponendo il suo regno come speculare al caveau del Monsalvato. Invece che d’algidi confratelli, il mago si
circonda di infide seduttrici, poste al suo servizio. Volendo fare una battuta
un po’ lubrica: chi ha il pane non ha i denti. In ogni caso, proprio la sua
menomazione lo mette al di sopra di simili lusinghe, al di sopra degli stessi
Cavalieri, che a esse non sanno resistere. Anche se, forse, preferirebbe
esserne “schiavo”. Come il Nibelungo Alberich, che rinuncia sì all’amore in
cambio del potere, ma solo perché l’amore gli è inaccessibile.
Tra i due regni speculari, fa da
cerniera la terza “anima in pena”, Kundry. Per aver deriso Cristo in croce, la
donna non riesce a trovare l’eterno riposo. Ogni volta che cade in un torpore
letale, si risveglia e i suoi tormenti esistenziali ricominciano. Non sa
decidersi tra il servizio a Klingsor e quello ai Cavalieri: probabilmente,
perché lei stessa non sa identificarsi. Così
come non lo sa fare Parsifal (Poul Elming, tenore). Non conosce neppure il
proprio nome. Non sa quale sia il “bene” da ricercare e perde, perciò, il primo
bene della propria vita: la madre. La sua sconsolata simpatia sta proprio nel
non indovinarne una. Piomba nel santuario a cielo aperto del Monsalvato e
subito uccide un sacro cigno, prendendosi le rampogne del cavaliere Gurnemanz
(John Tomlinson, basso). In fondo, Parsifal è destinato a diventare il papà di
Lohengrin, quel “cavaliere del cigno” che
ha dato il nome a un’altra opera wagneriana (1845-1849). E che piaceva tanto a
un caro amico di Richard, Ludwig II di Baviera. Cosa non si fa per gli amici…
Al
giovincello, Gurnemanz rivolge anche un paterno insegnamento: “Vedi, figliolo,
qui il tempo diventa spazio.” Battuta suggestiva quanto enigmatica, per
decifrar la quale ci vorrebbe un mistico –o un fisico?
È proprio la “pura follia” di Parsifal a fare la sua fortuna. Lo immunizza tanto
dall’ascetismo morente dei Cavalieri, quanto dalle “distrazioni” delle ninfette
di Klingsor. Eloquente l’idea di rappresentarle come immagini su schermi
televisivi. Forse, quel giardino stregato non è un mondo di fantasia.
Parsifal,
però, ha bisogno di “diventare se
stesso”. Non può vivere eternamente in una bolla d’innocenza, se –com’è profetizzato-
deve guarire Amfortas. Ha bisogno di capire l’essenza della sua ferita.
Paradossalmente, il ragazzo riceve la propria identità da colei che non ha
identità: Kundry. In lei, ritrova la madre e conosce l’amante (va bene,
scomodiamo pure Edipo). E comprende fin troppo bene la piaga del re. In fondo,
ogni personaggio del Parsifal è un ferito d’amore. Poco importa che sia l’
“amor sacro” per lo splendore del Gral o quello “profano” per (e di) Kundry. I
due generi di Eros si riuniscono nel finale. Cadute le illusioni di Klingsor, Parsifal
si ricongiunge alla sua donna e la lancia al Gral, in una simultaneità non
casuale. Kundry aveva condannato l’eroe a vagare lontano da ogni strada che non
portasse a lei, nel suo ritorno verso il Monsalvato con la reliquia strappata
al mago. In teoria, dunque, il perseguimento dell’appagamento amoroso dovrebbe
essere alternativo a quello della missione salvifica. Ma Parsifal ritrova la
donna proprio là dove avrebbe voluto/dovuto arrivare. L’opposizione fra “amor sacro” e “amor profano” non ha più senso. H.
Kupfer lo dice nel “proprio” finale. Scompare la Waste Land dei Cavalieri, sterile perché chiusa alla donna e agli
affetti. Scompare la Waste Land del
mago, sterile perché piena d’eros disumanizzato. Rimane la coppia Kundry-Parsifal,
proiettata verso un mondo alternativo ai precedenti. Resta con loro Gurnemanz,
“padrino” delle loro rinascite.
D’una commozione discretissima è la
scena in cui Parsifal trasmette il battesimo a Kundry. Fa pensare a quello
amministrato da Tancredi a Clorinda nella Gerusalemme
liberata. Né si pecca di speculazione nel ripensare a Lc 7, 36-50 e Gv 12,
1-8, davanti a lei che lava i piedi del non-più-folle e li asciuga coi propri
capelli. Oltre a Clorinda e Armida, Kundry diventa così la peccatrice
riscattata e Maria di Betania che riconosce Cristo.
Qui si conclude lo sfarfallio di
deliri nato dalle mie turbe musicali. Casomai questa orazion (non tanto) picciola dovesse
capitar sotto gli occhi di chi, tuttora, si picca di dar del “nazista” a R.
Wagner, lascio una perla: il compositore affidò la prima esecuzione di
quest’opera a un ebreo, Hermann Levi.
Prosit.
Classic Opera, n° 63,
maggio/giugno 2013.
Richard
Barber, Graal, Casale Monferrato
(AL), 2004, Piemme.
A me piace molto wagner, sono affascinato dalle sue pennellate musicali decisamente nordiche, e quella che è, per me, un dolce preludio al' immaginazione, il leitmotiv.
RispondiElimina"Pennellate"... Complimenti per il termine che hai scelto, Michele. Rende davvero l'idea di quella finezza di sfumature che di Wagner è propria. :-)
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