Io sono italiana. Ciò significa che il mio
ultimo ricordo (storico) della monarchia non è molto lusinghiero. Si è defilata
nell’epoca del maggior bisogno, per farla breve. Sono nata e cresciuta in una repubblica democratica parlamentare, dunque.
Con la sensazione sempre meno incerta che avesse ragione Giorgio Gaber: “…questa democrazia / che, a
farle i complimenti, ci vuole fantasia…” Anche se ciò non implica la nostalgia
della corona. Del resto, il rampollo dei Savoia sembra più interessato allo
spettacolo che al trono.
È
stato, perciò, da straniata che mi
sono accostata a Il Re Leone. Rai 1 l’ha riproposto, il 2
gennaio 2013, e ho praticamente trascinato la famiglia davanti al televisore.
Fotogrammi mozzafiato, a partir dall’alba nella savana che apre la pellicola.
Chi è stato nell’Africa subsahariana ne ha decantato il cielo. Non so se Disney
gli abbia reso piena giustizia; ma, forse, ci è arrivato vicino.
Mufasa
è sicuramente il genitore che vorrei diventare (e che dovrò contentarmi di
ammirare, probabilmente). Mai tirannico, mai sdolcinato, ha un carisma
straordinario. Nell’educare l’erede Simba, è pacatamente consapevole
dell’obiettivo: prepararlo al compito di re. Lo fa senza sbavature. Lo protegge
dai pericoli più grandi di lui, ma asseconda e incentiva la sua voglia di
crescere. Regala anche pillole di filosofia sulla regalità: il vero re è colui
che cerca di conoscere l’ordine naturale
e lo rispetta. Parrebbe di sentire gli elementi dello stoicismo: corrente
che, peraltro, ha un certo legame con l’educazione regale (vedasi il duo
Seneca-Nerone). Mufasa si dimostra anche ottimo insegnante. Fa comprendere al
cucciolo concetti complessi come “ciclo
della vita”, indicandogli semplicemente ciò che ha intorno: il sole che
sorge e tramonta; i predatori che, da morti, diventano l’erba di cui si nutrono
le ex-prede. L’educazione propone anche una cosmologia: “Le stelle sono i grandi re che ci guardano da lassù”.
Un modo mitopoietico per illustrare ciò che affermavano i francesi: muoiono i
singoli sovrani, ma la monarchia, in quanto istituzione, continua. Le
roi est mort, vive le roi!
Un
altro discorso merita Scar, lo zio usurpatore. N. Machiavelli, al Principe, raccomandava d’esser “volpe” e
“leone” (cap. XVIII). Quanto al “leone”, nessun problema. In merito alla
“volpe”, Scar sa esserlo, nell’accezione più cinica ed egoista. È un giocoliere di coscienze; come un
agopuntore, avverte i nervi sensibili e li stimola al proprio scopo.
Naturalmente, da machiavellico che
è, non si fa mancare un esercito proprio. Alla maniera di Catilina, fa leva sulla moltitudine degli insoddisfatti: ben
rappresentati dalle iene, che “penzolano in fondo alla catena alimentare”. Non
solo: la base di consenso è priva d’intelletto e cultura. Ragiona con lo stomaco, sul quale Scar fa ampiamente
leva. Questa massa è (parafrasando Manzoni) un corpaccio, pronto ad animarsi
nell’incontro con una mente.
Dopo aver assassinato Mufasa e cacciato Simba,
Scar completa l’opera con la debita vernice di retorica. “Uno principe […] paia, ad udirlo e vederlo, tutto pietà,
tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione…” (N. Machiavelli, ibid.). Parla di “una nuova era, in cui
leoni e iene collaboreranno”. Da leggersi come: abbandono della regione ai
sostenitori dell’usurpatore. I quali fanno man bassa del commestibile, fino
alla carestia. Risultato d’un governo basato solo sull’arbitrio.
Simba
cresce in esilio. In questo, si ripropone un archetipo millenario: la storia di
Mosè, Teseo, Romolo e Remo, Giasone, Sargon di Akkad… C’è qualcosa anche del
biblico Davide, nell’iniziale unzione da parte del “profeta” Rafiki. Il futuro
re trascorre un periodo di margine,
fuori dalla società, ma per prepararsi ai compiti di adulto. Il suo essere outcast gli permetterà di presentarsi
come (r)innovatore, immune dalla Storia già trascorsa. La foresta, diversa
dall’aperta savana, esprime questo “rinselvarsi” nell’oblio: l’Hakuna matata di Timon e Pumbaa. La ricomparsa, come quella di Odisseo o
Giasone, avrà i caratteri di un ritorno
dall’aldilà.
Per diventare re, Simba deve prima recuperare la
memoria storica e il bagaglio culturale del suo popolo.
Questi tornano nella persona di Rafiki: il primo a venire emarginato, sotto
Scar. L’usurpatore, pur sfruttando il proprio legame con la famiglia reale, ha
bisogno di azzerare il passato. Un
popolo senza passato non può né identificarsi, né mettere in discussione.
Il
ritorno al trono di Simba è salutato da una pioggia provvidenziale. Ricorda
quella finale dei Promessi sposi, che
depura Milano dalla peste. Così come l’inizio, la conclusione si svolge sulla
Rupe dei Re. Per rendersi concreto, il potere politico ha bisogno di luoghi simbolici. E di riti. La
presentazione del figlio di Simba chiude la vicenda nel segno del cerchio, cui la successione dinastica
somiglia idealmente. Questa circolarità è inusuale nella concezione europea
della Storia, scandita, piuttosto, per segmenti.
L’insistenza
è sulla genealogia maschile. Nulla
di che stupirsi, trattandosi d’una genealogia regale. Disney non si discosta,
in questo, da usanze millenarie e transculturali.
Il Re Leone, in modo accessibile a
grandi e piccini, compendia una teoria della regalità. Mi fa venir voglia di
chiudere pensando al qui citatissimo N. Machiavelli: serio e faceto sono sempre misti. Un film d’animazione può giocar
tranquillamente tra affabulazione e filosofia. In questo, imita la natura, che
è varia. Anche così si “rispetta l’ordine universale”.
comunque nel sequel (uscito solo per l'home video), Simba ha una figlia, Kiara.
RispondiEliminaComunque io adoro Il Re Leone così come parecchi film Disney e ho molto apprezzato il post!
Grazie! :-)
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