Esistono
ancora i resti della loro storica fucina, in una via manerbiese che si chiama –
appunto – Via Maglio. L’impiego del suddetto maglio fu concesso in enfiteusi
alla famiglia Bonera dal Comune di Manerbio nel 1845. L’atto originale della
concessione enfiteutica è custodito, insieme ad altri cimeli e documenti, da
Sergio Bonera e dai suoi familiari. Una
concessione simile era stata fatta a un certo Marco Antonio Molteni, nel 1816. Con
l’arrivo dei Bonera, però, fu inaugurata una tradizione artigianale duratura.
Generazione per generazione, essi impiegarono la forza motrice dell’acqua della
Röšå (un fosso affluente del Mella)
per far funzionare la loro fucina. L’impiego dell’acqua era concesso per il
periodo invernale; d’estate, essa era destinata a irrigare i campi.
Secondo l’albero genealogico
ricostruito da Nicola Bonera grazie agli archivi parrocchiali, le origini della
famiglia rimontano al 1757. Una ricerca di Paolo Bonera, però, mostra che il
cognome era presente a Brescia almeno fin dal 1517. Nicola ricorda con orgoglio
anche che una sua parente avrebbe rinvenuto indizi della provenienza dei Bonera
nientemeno che da Toledo, la città famosa per l’artigianato delle lame. Di
sicuro, la loro fucina manerbiese si è distinta per qualità e varietà della
produzione. L’ultimo a mantenere unita quella famiglia patriarcale (che
raggiunse i trentadue membri, tra genitori, figli di primo e secondo letto,
nuore e nipoti) fu Giuseppe Carlo Bonera, nonno di Nicola. I suoi colpi
sull’incudine erano il segnale della sveglia per tutta la famiglia. Chi lavorava
nella fucina, durante i mesi invernali, non aveva a disposizione altro che un
po’ d’acqua calda, per scaldarsi le mani. I mesi estivi, quelli in cui il
maglio taceva, erano un’occasione per pescare nelle acque del fosso, ormai
spopolate a causa dell’inquinamento.
Alla morte di Giuseppe Carlo, a
proseguire l’attività rimasero i fratellastri Giovanni e Angelo Vigilio,
rispettivamente zio e padre di Nicola. Dall’Edificio Maglio, uscivano
ordinariamente tre forme di badili: quelli a
müs dè bò (“a muso di bue”), adatti ai terreni manerbiesi; quelli a póntå (“a punta”), per i campi più
ghiaiosi di Ghedi e Leno; il badile quàder
(“quadrato”) in uso nel cremonese. Proprio dalla provincia di Cremona
provenivano molti clienti del padre di Nicola. Mentre i contadini bresciani
dovevano procurarsi da soli gli attrezzi (e preferivano quelli economici delle
ferramente), quelli cremonesi se li vedevano fornire dai proprietari dei campi,
che potevano permettersi prodotti d’artigianato. La Provincia di Cremona, poi,
ordinava annualmente badili per la manutenzione delle strade. Oltre a questa
produzione, i Bonera forgiavano coltelli da cucina, batacchi per campane,
attrezzi per taglialegna, roncole, falci. Rientravano nelle loro competenze
anche le mannaie impiegate in macelleria e le màse dèl fé (strumenti per tagliare il fieno sui fienili). A loro,
ci si rivolgeva anche per la riparazione degli assi dei carri. Per i mugnai, i
Bonera producevano martelletti per rifare le scanalature delle macine. Le lame
uscite dalla fucina erano affilate con mole provenienti da una cava di Sarnico.
Ciascuno dei manufatti era rifinito con un’abilità data dalla conoscenza
pratica e intuitiva della metallurgia. Un diploma del 1909 attesta che Giuseppe
Bonera, a Palermo, ottenne una Croce d’Onore al Merito all’Esposizione
Campionaria Internazionale Permanente.
Il
fuoco che fondeva il ferro era acceso dall’aria soffiata da un meccanismo
funzionante sempre grazie alla forza motrice idrica, da cui il detto: Senz’acqua, non c’è fuoco.
Attualmente,
del maglio restano le rovine, a loro modo suggestive, in un quadro ancora
agreste che gioca col tempo.
Pubblicato su Paese Mio Manerbio, N. 95, aprile 2015, pag. 7.
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