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Nel quartiere ebraico




Non riesco a muovere un passo che vada oltre qualche centimetro. La sciarpa sui miei occhi mi isola completamente dal sole abbagliante. Mi aggrappo alla mano di J. «Su, su!» mi esorta lui, quasi incredulo. «Come hai fatto al tuo processo goliardico, se ora tremi come una foglia?» Beh… Quella sera, a guidarmi erano in due. Ed ero sotto la benedizione della follia.
            Superiamo qualche gradino («Attenta… Adesso!»), un tratto di strada stretta («Un attimo… C’è un’auto che vuol passare…») e percorriamo quello che deve essere marciapiede. Infine, J. si ferma e mi sfila la sciarpa dagli occhi.
            Ci metto qualche istante a riabituarmi alla luce. Sono leggermente frastornata. Ma quella di fronte a me è indiscutibilmente la vetrina di una libreria ebraica. In realtà, me l’aspettavo. J. mi aveva promesso una visita a questo quartiere. L’idea gli era venuta dall’argomento della mia tesi (storia biblica) e dal mio interesse per il gioco del dreidel, la tipica trottola della festa di Hanukkah. J. conosce abbastanza bene quell’area della città, poiché l’ha attraversata spesso per fare visite. Si aggiunga la sua curiosità insaziabile, concorrente e compagna della mia.
            Dietro il bancone della libreria, c’è una matura signora che ci guarda, un po’ diffidente. «Lei mi ha fatto paura» commenta, indicando me. Indovino che è stato per via del “siparietto a occhi bendati”. La rassicuro: «Era solo scena... A lui piace fare sorprese». Accenno a J., sorridendo.
Lui, per tutta risposta, mi esorta: «Avanti, guarda! Ti interessano gli studi biblici? Qui c’è di tutto… Ci sono commenti scritti da fior di rabbini…» Quella cuccagna mi frastorna ancor di più. Devo anche fare attenzione al portafoglio, che non è certo come l’olio e la farina della vedova di Zarepta, tanto per restare in argomento. (Ah, giusto… Episodio del profeta Elia e della vedova di Zarepta: 1 Re 17, 9-16). Comunque, pesco il saggio di Victor Klemperer sulla Lingua del Terzo Reich. Benché fosse nel programma di un esame quasi suicida, i brani letti durante il corso mi avevano intrigato. Domando poi alla libraia se vi sia “qualcosa sul Libro di Ester”. «Su Ester… Ho la Mǝghillāh». Mi mostra due edizioni del testo ebraico del Libro di Ester, con relativo commento. Ne scelgo una. La signora mi concede gentilmente uno sconto.
Nel frattempo, J., invitante, si avvicina con una scatola di cartone contenente numerosi dreidel. Non posso fare a meno di sentirmi viziata da tante attenzioni. Anche lui ne sceglie uno per sé.
            Quando usciamo, lui mi indica anche un negozio di cibo kosher dall’altro lato della strada. «In realtà, non c’è niente di particolare da vedere… Ma, fiutando un che di esotico, sono entrato, un giorno…»
Ho quasi l’impressione che io e J. siamo tornati bambini in questo giorno di sole, tanto ci stupiamo delle cose ordinarie.
Poco dopo, è verso un ristorante che ci dirigiamo. Poco prima che entriamo, un maturo signore ci porge un foglio da leggere. È vergato in caratteri ebraici. J. si schermisce subito e guarda me con lieve speranza. Invano: trenta ore di corso universitario non sono sufficienti a padroneggiare la lingua. Anche l’anonimo signore si rassegna. Mi accommiato da lui, sprofondando sotto la vergogna per la mia grassa ignoranza. Comunque, non è stato un incontro sgradevole. L’Ignoto aveva begli occhi affusolati, nonché una barba grigia e folta. Per certi versi, una figura da immaginario tolkieniano.
 All’ingresso del ristorante, ci sono due acquai per abluzioni (per chi le esegue puntualmente in occasione dei pasti), con brocche, bacinelle e nicchie graziosamente decorate da dipinti a tinte floreali. Essendo J. il “finanziatore”, lascio scegliere a lui il menu. Decide allora di farmi assaggiare i falafel della casa («…i migliori che facciano in città!»), con barbabietole, pane arabo, crema di melanzane e hummus di ceci.
Nel frattempo, il discorso cade sulla politica: «Non è vero che “il popolo” è ininfluente. È vero nel bipartitismo americano, in cui l’elettore deve fare i conti con le molte proposte d’una stessa parte, senza mai trovar qualcosa che lo rappresenti in tutto e per tutto. Ciò fa sì che le segreterie dei partiti possano far quel che vogliono… Il pluralismo, invece, permette di scegliere… Tuttavia, il tormentone del “tanto, non puoi far niente”, “tanto, quella è una casta” è una profezia auto-avverante… Certo, per garantire la partecipazione dei cittadini ci vorrebbero un’istruzione e un’informazione adeguata. È inutile chiamarli a votare a un referendum su cose di cui non sanno nulla… Manca un’ideologia, cioè una visione d’insieme che conduca l’attività politica. Senza di quella, ecco l’opportunismo, ecco il carrierismo…»
Nella conversazione si inserisce il cameriere. L’attenzione si sposta sul Movimento dei Forconi. Il cameriere ne sostiene le ragioni. J. è meno entusiasta. «Il Movimento non ha una direzione precisa. La rabbia, da sola, non basta. Se non si sa dove andare, la furia si abbatte dove capita e la rivolta cade in mano a chi è capace di cavalcare la tigre. Ho visto tanti, nel Movimento… compresa gente che non sarebbe gradita in questo ristorante».
Io, nel frattempo, mi comporto da vera donna d’altri tempi: lascio che gli uomini s’impiccino di politica e penso a cose più concrete, come lucidare il piatto di portata.
Dopo i falafel, è la volta delle melanzane impanate. E del dolce, ovviamente. «Un budino di riso… Uno solo per tutti e due…» Il destino dei Forconi è ancora incerto, ma l’Unione delle Buone Forchette ha sicuramente battuto in ritirata.
            Sorseggiando il caffè al banco, io e J. osserviamo le varie bǝrākôt (“benedizioni”) da recitare prima dei pasti. Riesco a decifrare solo l’incipit di ciascuna: “Benedetto Tu, Signore Dio nostro…”  «Hai vinto comunque» mi dice J. «Cinque parole contro una».
            Più tardi, mentre cerchiamo di smaltire il pantagruelico pranzetto passeggiando, arriviamo nei pressi della scuola ebraica. I bambini stanno uscendo. J., che sa essere molto più disinibito della sottoscritta, più tardi domanderà precisazioni a una signora: «Sì… Elementari e medie assieme».
Si nota, però, un dettaglio inquietante: l’ingresso è presidiato da soldati in tenuta mimetica. «C’era la Polizia, prima…» chiosa J. «Perché?» faccio io, non senza un filo di premonizione. «Beh… sono ebrei. Immagina un po’». Deglutisco. «Ci sono stati… attentati?» «Sono stati rischiati» spiega lui. «Ogni tanto, qualcuno va lì a disegnare svastiche o a piazzare bombe-carta…»
            Poco più avanti, c’è un’altra scuola. Stavolta, sul muro, ideogrammi giapponesi. Una linda signora dagli occhi a mandorla, scendendo dalla scala esterna, ci saluta.

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