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No, non è morta...




Pavia, 30 maggio 2013
(vel melius: Papia, ne lo die trigintesimo
de lo mestruo Maio 1969+44)
 

Egregio Adriano Sofri,
benché la presente possa sembrare “fuori tempo”, ritengo che non sia mai tardi per mettere a punto i propri pensieri e farne parte agli altri. Ritorno, perciò, al 2001, anno in cui il sito di Panorama pubblicò il Suo "Così il '68 sconfisse la goliardia". Il mio non è un rimprovero, perché non ho l’autorevolezza di Umberto Volpini e anche perché, in fondo, chi ha il gusto del confronto non può provare rancore nel contraddittorio. Mi limito a notare che Lei accusa altri di “sciocchezza” dichiarandosi, purtuttavia, “incompetente” in materia. Mysterium fidei, amen.
            Questa lettera aperta vuol essere uno spaccato dei pensieri e dei sentimenti d’una goliarda d’oggi. Una goliarda, perché, così come l’università ha accolto le donne massicciamente, l’ha fatto il suo alter ego. Ho avuto la ventura d’approdare in una delle molte città universitarie dove questa tradizione si è risvegliata. Ancor più, mi sono riconosciuta immediatamente in questo spirito fiero, irriverente, estroso e serio senza austerità, benché la mia estrazione sociale sia quasi l’opposto di quella degli universitari pre-Sessantotto. Lo spirito goliardico soffia dove vuole.
Ora, porto da poco la Feluca bianca in un ordine femminile. Sto attraversando per la seconda volta il noviziato matricolare che, checché se ne dica, non mi è stato prostrante né adesso, né al mio primo anno di collegio.
            Quando Lei dice che la Goliardia è morta col ’68, si riferisce esplicitamente a un’università d’élite maschile e militaresca. Ma l’università è mutata, restando se stessa. Così pure la Goliardia, come accennavo poc’anzi. I cambiamenti sono stati simili a quelli cui vanno incontro le lingue: impercettibili, ma riscontrabili a distanza di tempo. Oggi, non si parla l’idioma delle Tre Corone fiorentine, ma lo si riconosce come tappa della “nostra lingua”. Io e i miei confratelli non siamo più i pochi “padroncini” bellicosi e intoccabili di cui Lei ha memoria. Di questo siamo ben consapevoli. I canti della nostra tradizione hanno un sapore di tempo andato e, insieme, di familiarità, come un sonetto di U. Foscolo per un poeta odierno. Lo stesso vale per insegne e riti. Ripeterli non è però un’adesione passiva o una scimmiottatura. È un rendersi conto di quanta acqua sia passata, ma anche di come l’alveo sia stato scavato da chi ci ha preceduto. Seppelliamo i nostri padri, traendo dal nostro tesoro cose nuove e cose antiche.
            Ai Suoi tempi, la promiscuità fra ragazzi e ragazze nei luoghi formativi fu una novità dirompente. Ora, confratelli e consorelle si dividono i doni di Bacco, Tabacco e Venere senza troppi complessi. Il culto del basso corporeo rimane più che mai, ma noi donzelle l’abbiamo arricchito con le nostre pulsioni e il nostro immaginario, rompendo il monopolio fallocentrico. Non c’è più l’usanza dei duelli, per ovvi motivi. Ma amiamo le schermaglie d’ingegno e di dialettica, anche e soprattutto surreali. Del resto, l’intelligenza è sopraffina solo quando sa superare gli schemi quotidiani.
Soprattutto, sebbene sia successo del bello e del buono dal XII secolo a oggi, manteniamo costanti quelle che sono le ossa della Santa Madre Goliardia: “…libertà di pensiero, dileggio del potere, beffa. Mentre genialità e creatività ti permettono di aggirare quel ferreo ordine gerarchico che ci contraddistingue e che è pura derisione di quello che si ritrova nella vita di tutti i giorni” (Riccardo Volpi sul Corriere Fiorentino. Finché l’università sarà cultura, giovinezza, passaggio, ricerca intellettuale, uscita dagli schemi “pop” (così tristemente plastificati, oggi…), ci saremo noi “felucati”. La Goliardia è morta, viva la Goliardia! Come la nostra accademia… si spera. I nostri predecessori furono “patrioti” nel senso in cui lo si era ai loro tempi. A noi toccherà esserlo difendendo con le unghie e con i denti la pubblica istruzione, senza la quale non vi sono né cittadinanza consapevole, né prestigio d’un Paese. Ecco il velo d’amaro che è sempre dietro il riso goliardico… Vivat et res publica/et qui illam regit;/vivat nostra civitas,/maecenatum caritas/quae nos hic protegit… Magari potessimo continuare a cantarlo…
Con inaspettato affetto,

Erica

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