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"Mandragola", tragicommedia di un Paese di furbi

“Commedia satirica di quotidiana e stringente attualità fondata nel 1518”. Così l’efficacissima locandina definiva “La Mandragola” di Niccolò Machiavelli (1469-1527). Per sottolineare il concetto, il manifesto era stato composto in forma di foglio di giornale. In questo modo, è stata annunciata la rappresentazione del 10 marzo 2016, al Politeama di Manerbio. Lo spettacolo era a cura del Progetto URT - Compagnia Jurij Ferrini. Quest’ultimo è regista, attore e non solo. “Potremmo definirlo un meditativo travestito da impulsivo. Ciò che propone da attore e da regista sembra creato all’impronta e invece nasce dal rovello di voler mostrare quel che accade qui, per noi, senza badare all’età del testo” lo presentava la locandina. Con lui, sulla scena, recitavano Gianluca Guastella, Matteo Alì, Michele Schiano di Cola, Alessandra Frabetti, Angelo Maria Tronca e Rebecca Rossetti.
            “La Mandragola” è un piccolo capolavoro, in cui si fondono la conoscenza della commedia antica da parte di Machiavelli e la sua esperienza politica. Il suo disincanto, la sua analisi della natura umana e della storia, la sua grazia stilistica non hanno niente da invidiare al celeberrimo “Principe” (1513). La “finzione” del teatro comico permise all’autore di mettere a frutto il proprio sapere, in un periodo di forzato allontanamento dalla vita pubblica. 

            Nella commedia, il giovane Callimaco spasima di passione per Lucrezia, la più bella donna di Firenze, ma anche la più fedele all’anziano marito. Questi è Nicia Calfucci, dottore in legge, ma terribilmente sciocco per natura. Con l’aiuto del fedele servo Siro e dell’esperto parassita Ligurio, l’innamorato vince Nicia nel suo punto debole: il desiderio d’avere un figlio a ogni costo. L’unico rimedio - gli dice - è somministrare a Lucrezia una pozione di mandragola, che la renderà sicuramente fertile. Ma il primo uomo che giacerà con lei assorbirà il veleno della pianta e rischierà la vita. Occorre dunque rapire uno sfaccendato e metterlo nel letto della donna; dopodiché, il marito potrà fare il proprio “dovere” in assoluta sicurezza. Naturalmente, lo “sfaccendato” sarà proprio Callimaco camuffato. Per vincere le resistenze morali di Lucrezia, gli intriganti si servono della madre di lei (ex-donna di facili costumi) e del confessore, fra’ Timoteo, più interessato a guadagnare “elemosine” che anime.
            I costumi e la scenografia proiettavano la storia nei giorni nostri, con qualche dettaglio simbolico non trascurabile. Sul portone della casa di Lucrezia, compariva la sagoma dell’Italia. Sulla facciata del convento di fra’ Timoteo, era riprodotta una banconota da cinquecento euro e l’accesso era possibile solo tramite bancomat. 

            Alcune scene chiave, come il rapimento del finto sfaccendato, erano rese con coreografie da musical. Gli ombrelli avevano il ruolo di “oggetti tuttofare”, di volta in volta pugnali o liuti. Qualche “gag” era aggiunta a un testo, per il resto, inalterato nel suo fiorentino cinquecentesco. Il realismo dell’ambientazione si sposava così a quello dell’osservazione di Machiavelli. E terribile, in questa luce, erano le parole di Ligurio a proposito del matrimonio fra Lucrezia-Italia e Nicia-Popolo: “Io non credo che sia nel mondo el più sciocco uomo di costui. E quanto la fortuna lo ha favorito! […] spesso si vede uno uomo ben qualificato sortire una bestia, e per avverso una prudente donna avere un pazzo. Ma della pazzia di costui se ne cava questo bene, che Callimaco ha che sperare.”


FOTO MONTERENZI

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