Presentazione -rielaborata ed ampliata- della tesi di laurea triennale di Erica Gazzoldi: Hellenism and the Seleucids in the Book of Daniel, corso di laurea in Antichità classiche e orientali.
Ho dato inizio al presente lavoro con una citazione da Umberto Eco: “I libri non sono fatti per crederci, ma per essere sottoposti a indagine. Di fronte a un libro non dobbiamo chiederci cosa dica ma cosa vuole dire.” Per l’appunto, questo è ciò che mi ha condotto verso una tesi d’argomento biblico: la passione per la scoperta dei vari livelli di lettura, la convinzione che l’anima di un testo vada ricercata in profondità.
Nella fattispecie, il prof. Lucio Troiani mi ha proposto di lavorare sul libro del profeta Daniele. Si è trattato di eviscerare il testo alla ricerca dei riferimenti storici che contiene. Ne è emersa una pluralità di elementi che hanno ricondotto l’opera alla prima metà del II sec. a. C.; soprattutto, il profeta protagonista farebbe fitte allusioni alle vicende dei sovrani seleucidi di Siria.
Nel presente lavoro, ci siamo valsi sia di fonti storiografiche antiche, sia degli studi di Elias Joseph Bickerman, Arnaldo Momigliano, Chiara De Filippis Cappai, Paolo Sacchi, Jan Alberto Soggin e Giulio Firpo.
Il testo biblico da cui i brani sono citati è la versione greca dei Settanta, nell’edizione curata da Alfred Rahlfs a Stoccarda.
In superficie, il Libro di Daniele racconta la storia del protagonista eponimo e dei suoi coetanei alla corte di Nabucodonosor II. L’ambientazione è l’esilio babilonese degli Ebrei, sconfitti nel 597 a. C. e deportati parte in quello stesso anno, parte nel 586 a. C. Questo evento fu uno spartiacque per la cultura ebraica, poiché portò ad una sua riorganizzazione complessiva. È particolarmente evidente l’impatto sulle Sacre Scritture.
Nel caso del Libro di Daniele, l’Esilio –come abbiamo detto- fa da sfondo alle vicende di questo giovane dalle doti di veggente. L’abilità nell’interpretare sogni e visioni gli frutta una brillante carriera alla corte babilonese. Allo stesso tempo, però, Daniele ed i suoi connazionali affrontano episodi d’intolleranza religiosa. In seguito a questi ultimi, il protagonista eponimo avrebbe ricevuto dettagliate visioni sul corso futuro della Storia e sulla fine delle persecuzioni. Proprio queste ultime avrebbero fruttato a Daniele la nomea di “profeta”, nonché la classificazione dell’opera come “apocalittica”.
Quest’ultimo è un genere letterario assai difficile da definire. Paolo Sacchi, autore de L’apocalittica giudaica e la sua storia, sottolinea come il termine “apocalittica” sia di conio recente e nato per beneficio di studio, sul modello della cristiana Apocalisse di Giovanni. Un filone letterario antico che si autodefinisca “apocalittico” non è attestato. In più, la questione non è solo formale: riguarda anche una certa forma di pensiero ed una peculiare visione del mondo.
Una chiave di lettura è la stessa radice di “apocalittica”: il termine deriva da ̓αποκάλυψις, “rivelazione”. Sono, per l’appunto, classificati come “apocalittici” i testi che contengono rivelazioni sul corso della Storia e sul destino dell’uomo. Come ricorda Bickerman, essi sembrano essere caratterizzati da un certo dualismo: condannano il presente come età oscura e proiettano i tempi felici nel futuro. Il discorso apocalittico, pertanto, sconfina spesso nell’escatologia e s’interroga anche sulle origini del male. Il “dualismo”, però, è solo apparente o molto sfumato: la felicità futura è vista come radicata nel presente, in fase di preparazione.
Nel Libro di Daniele, il male è storico, fatto di dominazioni straniere e persecuzioni religiose. La lotta contro questi mali è descritta in modo fortemente immaginifico. Noi abbiamo esaminato soprattutto tre fra le visioni del profeta: il sogno di Nabucodonosor (Dn 2); le quattro bestie (Dn 7); il montone ed il capro (Dn 8).
Nel secondo capitolo, il sovrano babilonese sogna una statua così composta: la testa è d’oro, le braccia ed il torso d’argento, la pancia e le cosce di bronzo, le gambe d’acciaio, i piedi d’acciaio e d’argilla mescolati fra loro. Daniele interpreta la serie di metalli come una successione di regni. Più difficile è stabilire quali, precisamente, fossero. E. J. Bickerman ravvisa in essi Babilonia, la Media, la Persia, l’impero di Alessandro Magno ed i regni dei Diadochi. Il regno babilonese è identificato con l’oro, per omaggio a Nabucodonosor; per il resto, Daniele sembra non istituire una gerarchia di valore fra le monarchie successive. La vera opposizione è fra la statua, allegoria della Storia umana, e la pietra che la abbatte alla conclusione del sogno, preannuncio del regno di Dio sospirato dalle Scritture ebraiche.
I regni ellenistici, come il ferro e l’argilla, non potranno amalgamarsi: ossia, stringeranno accordi ed alleanze matrimoniali, ma senza pervenire ad una pace effettiva. Si ricordi la ridefinizione di confini dopo la battaglia di Isso (301 a. C.), narrata da Plutarco nella Vita di Demetrio: Seleuco I Nicatore otterrà la Siria, ma Tolemeo I d’Egitto manterrà la Celesiria. Questa ricca e strategica regione resterà il pomo della discordia fra i due regni. Daniele allude ad un matrimonio interdinastico. Bickerman vi riconosce le nozze fra Antioco II di Siria e Berenice, figlia di Tolemeo II d’Egitto (252 a. C.). L’esito sarà infausto: Laodice, prima moglie di Antioco, assassinerà Berenice, il marito ed il loro figlio (246 a. C.).
Il secondo capitolo del Libro di Daniele, tuttavia, non è interessante solo per le allusioni alle vicende del III sec. a. C. È significativo anche per ciò che vi rileva Arnaldo Momigliano: la teoria greca della successione degli imperi. È un’impostazione storiografica di Polibio, che la fa enunciare anche a Demetrio Falereo nel libro XXIX delle sue Storie. Con una successione di regni avviano le proprie opere Dionigi di Alicarnasso ed Appiano di Alessandria. Il Libro di Daniele, dunque, si presenta come ellenistico sia per i contenuti che per la concezione della storia umana.
Ancora più immaginifica del sogno di Nabucodonosor è la visione delle quattro bestie (Dn 7). Dal mare, ricorrente nelle Scritture come simbolo d’insidia, salgono quattro esseri mostruosi: un leone alato ed antropomorfizzato; un orso vorace; un leopardo con quattro ali e quattro teste; una quarta bestia recante dieci corna.
Simili creature sono familiari all’immaginario babilonese e non solo: un sigillo del re persiano Dario, custodito al British Museum, mostra proprio un leone in posizione eretta, come quello della visione.
Più significativo ancora ciò che afferma Bickerman: le quattro bestie sarebbero legate alla geografia astrale babilonese. Leone, orso e leopardo rappresenterebbero rispettivamente il sud (Babilonia), il nord (la Media) e l’est (la Persia). Questa visione, dunque, sarebbe parallela al sogno di Nabucodonosor. Tenendo fede al parallelismo, la quarta bestia dovrebbe alludere all’impero macedone e le sue dieci corna a sovrani ellenistici. Daniele non offre indizi per una più precisa identificazione di questi ultimi. Bickerman suggerisce: Alessandro Magno; il suo fratellastro Filippo Arrideo; Antigono Monoftalmo; sette re di Siria da Seleuco I a Seleuco IV. Dopo questi –secondo il testo biblico- sarebbe sorto un undicesimo “corno”, con occhi e bocca umani, pronunciante parole superbe. Questo corno sarebbe più piccolo degli altri; dunque –secondo la lettura finora tenuta- un discendente dei Diadochi. Dati i suoi tratti di superbia e distruttività, autori cristiani come S. Girolamo l’hanno identificato con l’Anticristo. Di diverso parere era Porfirio di Tiro, storiografo e cronografo. Nel 260 d. C., fu autore del trattato Contro i Cristiani. La sua opera ci è pervenuta solo a frammenti, raccolti da Felix Jacoby nei suoi Fragmente der griechischen Historiker. Porfirio è citato da S. Girolamo nel suo Commento a Daniele: in luogo dell’Anticristo, il cronografo avrebbe visto adombrato il seleucide Antioco IV Epifane. D’altronde, questo sovrano ben si prestava ad essere vituperato da un autore ebreo. Negli anni ’60 del II sec. a. C., infatti, Antioco abolì le tradizioni giudaiche. Ciò era in linea con la politica di unificazione culturale perseguita dai Seleucidi, ma si discostava dall’abituale tolleranza di questi sovrani. Giuseppe Flavio, nelle sue Antichità giudaiche (XII, 384) suggerisce una soluzione all’enigma: dietro la decisione di Antioco vi sarebbe stata l’élite ebrea ellenizzata. In particolar modo, Menelao, fratello dell’amministratore del Tempio, si sarebbe appoggiato al seleucide per divenire sommo sacerdote.
Questo complesso quadro politico è illustrato da Chiara De Filippis Cappai nel suo saggio sui rapporti fra Roma e la Giudea.
La visione di Daniele rappresenta il corno/Antioco nell’atto di abbattere tre corna vicine. Ciò metterebbe in crisi il calcolo dei dieci re identificati poc’anzi. Il numero 10, tuttavia, non va inteso in senso necessariamente letterale: esso è un simbolo di grandezza e serve, probabilmente, per amplificare un’idea di potenza.
Resterebbero da identificare le tre corna abbattute. Bickerman ne disserta in Four Strange Books of the Bible. Due di esse sono interpretate come Tolemeo VI Filometore ed il fratello co-regnante. Polibio (XXX, 25, 1-19) narra la loro sconfitta ad opera di Antioco IV. Il terzo potrebbe essere Artassia d’Armenia, della cui cattura scrive Appiano (Syr. 45-46). Tuttavia, ciò avvenne nel 165 a. C., quando l’attenzione giudaica era focalizzata sui conflitti interni alla Palestina. Più probabilmente, dunque, il terzo corno è Cleopatra VII, co-regnante in Egitto insieme ai fratelli prima menzionati.
Le allegorie teriomorfe proseguono in Dn 8. Qui è rappresentata la lotta fra un montone e un capro. Il testo stesso li definisce come “il re dei Medi e dei Persiani” e “il re dei Greci”. Quest’ultimo titolo può rinviare solo ad una figura unificatrice dell’universo politico greco. Lo fu Alessandro Magno, autore anche della sconfitta di Dario III. Il simbolismo del montone e del capro è, ancora una volta, di carattere astrale: il primo indica la Persia, unificata con la Media già da Ciro il Grande (3° quarto del VI sec. a. C.); il secondo adombra la Siria. Daniele la confonde con la Grecia, giacché entrambe sono ad ovest rispetto alla Persia e la Siria fu ellenizzata nel III sec. a. C. Questa confusione, perciò, è un altro indizio di postdatazione della “profezia”.
Daniele attribuisce al capro un corno (l’impero macedone), spezzato e disperso “verso i quattro venti del cielo”. Di nuovo, si ha un rimando alla frattura dei domini di Alessandro dopo la sua morte.
Particolarmente interessante dal punto di vista cronografico è la “profezia delle settanta settimane” . In Dn 9, 24-27, l’arcangelo Gabriele annuncia a Daniele che i tempi bui dureranno “settanta settimane d’anni”. Di questo si occupa Jan Alberto Soggin nella sua Introduzione all’Antico Testamento. 70 è una cifra tonda per indicare il passaggio di due o tre generazioni: il tempo intercorso fra la distruzione del Tempio per mano babilonese (587/6 a. C.) e la sua ricostruzione (517/6 a. C.). Se si calcolano, invece, 70 X 7 anni, si arriva dall’esilio babilonese all’età di Antioco IV con il periodo immediatamente successivo. È però opportuno osservare come sono suddivise le settimane d’anni:
7 settimane d’anni: dalla deportazione al rimpatrio concesso da Ciro il Grande;
62 “ “ “ : il calcolo si fa più problematico. Soggin suggerisce che si tratti di un arrotondamento, per ottenere un altro multiplo di 7;
1 settimana d’anni: persecuzione di Antioco IV e riconsacrazione del Tempio.
In Dn 9, 27 si trova l’espressione βδέλυγμα τω̃ν ερεμώσεων, “abominio della desolazione”, che sarebbe stato imposto nel Tempio. Chiara De Filippis Cappai la interpreta come שָׁמֵם שִׁקּוּץ (shiqquz – shomem), probabile deformazione di Ba’al shāmên, il “signore del cielo” venerato dai Cananei e simile a Zeus Olimpio. Il culto di quest’ultimo, appunto, fu imposto da Antioco IV nel Tempio.
Le visioni teriomorfe del Libro di Daniele costituiscono l’argomento del primo capitolo della tesi. Il secondo si concentra su Dn 11, che abbandona le allegorie immaginifiche per fare più sobrie allusioni a conflitti armati. Il passo comincia con una carrellata che riassume le vicende bibliche e dinastiche già esposte. Ripete il riferimento alla formazione dei regni ellenistici, dei quali si sarebbero affrontati il “re del sud” –probabilmente, l’Egitto, il più meridionale- e il “re del nord”. Ciò che Daniele narra ricorda da vicino le guerre fra Egitto e Siria per il dominio sulla Celesiria. Le attestano, in modo particolare, autori come Polibio, Diodoro ed Appiano, senza trascurare Porfirio.
Il terzo capitolo della tesi prende in esame i caratteri che avvicinano il libro di Daniele alla letteratura ellenistica. Innanzitutto, il gusto novellistico, rafforzato dall’aggiunta della storia di Susanna e delle lotte di Daniele contro le divinità babilonesi: episodi assenti nella Bibbia ebraica e comparsi in quella dei Settanta.
Poi, è prettamente ellenistica la pratica della pseudoepigrafia, ossia l’attribuzione di un testo a un personaggio illustre. E. J. Bickerman si sofferma su questo fenomeno in un articolo del 1973: “Faux littéraires dans l’antiquité classique”, comparso su Rivista di filologia e di istruzione classica.
Daniele, poi, si avvicina a Callimaco per la celebrazione del catasterismo: se il poeta trasforma in costellazione la chioma di Berenice, il profeta dichiara che “i saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento”.
Non bisogna dimenticare le tracce di epistolografia: Nabucodonosor e Dario scrivono ai propri sudditi con formule che Bickerman paragona a quelle adoperate dai sovrani ellenistici: “Popoli, nazioni, lingue, a voi è rivolto questo proclama…” (Dn 3,4); “…a tutti i popoli, nazioni e lingue che abitano tutta la terra” (Dn 6, 26).
In conclusione, abbiamo preso le mosse dai contenuti letterali del Libro di Daniele per risalire a quelli meno visibili, appoggiandoci a storiografi antichi e studiosi moderni. In tal modo, abbiamo sottolineato come questo testo non sia tanto una testimonianza sull’esilio babilonese, quanto sul modo in cui il popolo ebraico visse il dominio dei sovrani seleucidi e gli eventi svoltisi sullo scacchiere ellenistico. Nella figura di Daniele si condensano il desiderio giudaico di mantenere la propria identità etnica, insieme all’esigenza di trovare un senso alla storia universale, in un quadro politico-culturale dagli orizzonti sempre più ampi.
7 dicembre 2011
Università degli studi di Pavia
Sala Lauree della facoltà di Lettere e Filosofia
Presidentessa di commissione: prof.ssa Elisa Romano
Relatore: prof. Lucio Troiani; Correlatore: prof. Elio Jucci
Il testo della tesi è consultabile e scaricabile da qui.
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RispondiEliminaJONATHAN SEITANIDIS: Graaande Erica Gazzoldi Favalli!!! mi metto a leggerlo subito..sono intrigato da questo argomento.
ERICA GAZZOLDI FAVALLI: ^_^
Nei ringraziamenti ho ricordato anche la GBU... ;-)
JONATHAN SEITANIDIS: letto tutto il blog, strabello!! sei proprio forte...mi piacerebbe leggere tutta la tua tesi...e porti anche delle domande..tipo..la escatologia che descrivi è quella storica...ma io per esempio la condivido solo a metà..ma considero che gran parte sta per reallizzarsi adesso....10 potenze mondiali (economiche militari)...1 corno che si eleva ''l'anticristo'' (dittatore mondiale, moneta unica mondiale dopo il colasso del presente sistema e.t.c.)....prosegui i tuoi studi a pavia?
ERICA GAZZOLDI FAVALLI: Io proseguo i miei studi a Pavia. :-) Comunque, attenzione a non far dire al testo ciò che vogliamo. Quasi tutti gli imperi che si sono affermati nei secoli avrebbero potuto essere quello di Daniele... ;-)
JONATHAN SEITANIDIS: appunto..soprattuto i primi cristiani hanno visto nelle prime dinastie romane il testo di daniele..etc..giovanni diceva che il tempo delal fien è vicino (parliamo del 1o secolo dopo Cristo)...Daniele invece essendo un profeta...non descrive il suo tempo ma il futuro..e la che si aprono le interpretazioni ;)..se invece neghi la sua abilita profetica..cerchi di collocarlo nei periodo dei seleucidi come hai ben fatto...non credo che esiste un errore nella interpretazione sia del uno che del altro...puo essere che ci completa entrambi..pero credo che ci sia l'inspirazione divina..anche se il testo è stato contaminato nella traduzione dei settanta dalla cultura ellenica..contaminazione che ha fatto partorire una bellezza letteraria..e per questi dettagli che sono mancante ci troviamo e mi fai leggere la tua tesi! :))
ERICA GAZZOLDI FAVALLI: Ehm... magari, te la invio sotto forma di file! :-)
JONATHAN SEITANIDIS: si si..ti diro..daniele e zaccaria...insieme con l'apocalisse sono i libri piu difficili..li ho letti tante volte..ma capisco sempre poco..aspetto il file! grazie!
In ogni caso, io penso che si tratti anche di definire cosa sia da intendersi per "capacità profetica". Si usa spesso quest'espressione come sinonimo di "preveggenza". Ma questo legame con la pura e semplice previsione del futuro -a mio vedere- la banalizza. La profezia non è visione del futuro, ma *sguardo profondo* sul presente. ;-)
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