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Il complesso di O: donne sottomesse per scelta

Sposati e sii sottomessa di Costanza Miriano non è più di moda e anche le Cinquanta sfumature di grigio non sono più sulla bocca di tutti. Ma non si è sciolto il nodo della questione: perché così tante donne trovano attraente l'idea di essere sottomesse a un uomo? 

Una bella donna indossa catene come se fossero collana e orecchini.

Nella maggior parte dei casi, la risposta è proprio questa: perché è un'idea. Non va al di là della fantasia. Se si realizza, si realizza in ambiti molto circoscritti e in pratiche erotiche di nicchia: l'ambiente BDSM, appunto.

Diverso è il caso delle donne occidentali che si convertono all'Islam: altro tema che fa discutere, che non è affatto legato a una nicchia e che non si limita alla "stanza dei giochi erotici". A maggior ragione perché queste convertite sono spesso accese paladine della "tradizionale condizione femminile islamica", che descrivono come "tutela" e "rispetto".

Infine, ci sono le donne che rimangono legate a uomini violenti, o autoritari, o manipolatori o che sono perennemente attratte da loro.

Stranezza? Arretratezza? Regressione?

Qualche spunto di lettura ci viene da un romanzo iconico, uscito nel 1954, ma ancora attuale: Histoire d'O di Pauline Réage (in italiano, Storia di O). Viene spesso classificato come "letteratura erotica", ma tende ad annoiare diversi cultori di questo genere. Infatti, è più simile a un romanzo psicologico focalizzato sull'animo femminile.

La trama, di per sé, si può riassumere così: una donna chiamata O accetta volontariamente di divenire schiava del suo amante, realizzando tutte le fantasie erotiche di lui. La parte più interessante è l'aspetto religioso di questo amore totalizzante: lui vuole essere amato come un dio e lei trova in questo legame una potente ragione di vita che mai ha sperimentato prima d'ora. I segreti di questa "gioia" sono l'intensità e la totalità. Il "complesso di O" consiste proprio nel sentire come unica felicità possibile quella di appartenere interamente a qualcuno. Persino la violenza e la possessività possono essere confuse con una passione di rara forza.

La libertà di cui si può godere nell'odierno mondo occidentale ci dà spesso la sensazione che i rapporti siano instabili, intercambiabili e quindi senza valore. Soprattutto la parte più primitiva di noi, quella che ricorda la simbiosi uterina col corpo materno, rimane insaziata. L'amore paritario fra spiriti autonomi, quello in cui "si beve insieme, ma non dalla stessa coppa" (per dirla con Gibran Kahlil Gibran) è difficile da costruire e, a volte, non si ha neanche l'idea esatta di cosa sia. È più attraente l'estasi di una fusione mistica, come quella che Catherine Earnshaw viveva con Heathcliff in Cime tempestose ("senza di lui, l'universo diventerebbe per me un immenso estraneo"). Oppure, come quella di cui tratta Jean S. Bolen nel suo celebre volume Le dee dentro la donna, quando parla delle "donne-Era": tutte protese verso l' "unione sacra" con "uno sposo che le completa", che le fa sentire "signore" e che è per loro come un dio. Il senso d'importanza, pienezza e gaudio che nozze così intese possono garantire è impagabile - almeno finché non si profilano delusioni e tradimenti. Anche considerarsi "riservata all'Unico" fa sentire preziosa e unica a propria volta. Arriviamo quindi a quel "rispetto" di cui parlano le neoconvertite all'Islam.

In questo caso, è improprio parlare di "complesso di O", visto che l'amante di quest'ultima si compiaceva di offrirla ad altri uomini, mentre un marito musulmano osservante difficilmente farebbe altrettanto. Però, anche in questo caso, vediamo donne ben contente di sottostare a limitazioni circa il proprio corpo, i propri spostamenti e il proprio modo di vestire, nonché di compiacere il marito con la fedeltà e la dedizione. Potremmo fare lo stesso discorso anche per diversi matrimoni occidentali, se vissuti con una mentalità "all'antica". A questo, si aggiunga il coinvolgimento nell'esperienza religiosa, che permette di sentirsi accolte in una famiglia di dimensioni mondiali e investite di una missione che dia senso all'esistenza.

In un mondo in cui tutt'oggi le donne vengono spesso sessualizzate come oggetti e faticano a ottenere rispetto in quanto persone in sé e per sé, il modo più facile di essere trattate "da vere signore" è tuttora legarsi a un uomo di buona reputazione e rendersi inaccessibili a tutti gli altri, anche solo alla vista. Un'armatura pesante, ma che diventa piacevole quando ci si dice: "Sono preziosa, sono una signora, sono a modo", o addirittura: "Piaccio a Dio".

Il segreto di ogni morale rigida, per trovare adepti, è proprio legare il senso del valore di sé al rispetto del suo codice.

Ognuno di noi ha fame dell'approvazione altrui e persino della reverenza. È innegabile che, per una donna, sia assai più immediato ottenerle adeguandosi alle aspettative di un legame, una società o un'istituzione rigida, rispetto a quanto avviene un mondo più egualitario in cui "uno vale uno", ma "alcuni sono più uguali degli altri" – anzi, “delle altre”. Essere emancipata non ci fa più sentire "speciali": è la norma, spesso anche faticosa, visto che ci fa scendere dal piedistallo di "signora" per farci divenire comuni mortali che sgobbano per stipendi non abbondanti. Chi vizia una donna emancipata? Chi la fa sentire santa o matrona? Nessuno.

Non ricordo chi disse che chi vuole asservire le donne ne fa il perno della società: il perno è importantissimo, ma proprio per questo non può muoversi da lì. È intrappolato nella sua stessa centralità, alla quale non vuol peraltro rinunciare, perché si sentirebbe inutile o sminuito.

Ecco, quindi, che chi intende davvero promuovere l'emancipazione femminile (e non solo) si trova ad affrontare due istanze psicologiche: il narcisismo naturale, che non si appaga di un'eguaglianza "che non ci rende speciali", e il bisogno di mistico, di uno slancio che renda l'esistenza protesa verso un fine.

            Come aggirare questi due giganti? Innanzitutto, con la corretta informazione e il senso critico. Questo spetta ai giornalisti, agli insegnanti e ai ricercatori, che hanno gli strumenti per dipingere un quadro delle tradizioni, delle religioni e delle strutture sociali più articolato di quanto i nostri entusiasmi e i nostri bisogni ce lo dipingono. Poter soppesare i lati negativi (insieme a quelli positivi) della via che abbiamo intrapreso ci aiuta a sceglierla con più consapevolezza e anche a cambiare strada, quando ci rendiamo conto che non è tale quale ce l’eravamo immaginata.

            Gli altri mezzi necessari sono la franchezza e l’introspezione spregiudicata. Sarebbe augurabile arrivare alla tremenda sincerità che regna negli ambienti BDSM, dove neppure le pulsioni più “basse” o “brutali” vengono rinnegate… e proprio per questo vengono soddisfatte in modi che non raggiungono mai la rischiosità e la violenza che vediamo nel “mondo normale”. Anche senza coltivare quel tipo di pratica, ci sono strumenti come l’espressione artistica e il gioco (non tutti i giochi sono per bambini…) che ci permettono di dare uno spazio legittimo e sicuro agli “altri se stessi” che ci portiamo dentro. Meglio ancora se la suddetta espressione e il suddetto gioco sono condivisi tra anime affini. Nessuno ha mai vietato di sentirsi “re e principessa”, o “Liù e Calaf” (per non dire “schiava” e “signore”, che possono essere male intesi), o “sposi mistici”. L’unico errore è scambiare i propri bisogni per bisogni del mondo intero e pretendere che “il mondo sia malato” perché non si comporta secondo i nostri gusti. No, le istanze delle minoranze (sessuali o d’altro tipo) non c’entrano niente: la richiesta di eguaglianza legale e dignità non impone agli altri di vivere alla nostra maniera, a meno che non si consideri “imposizione” la richiesta di legittimo e dovuto rispetto delle persone e dei diritti. Penso piuttosto al fenomeno delle tradwife, “le mogli all’antica” che si stanno trasformando in influencer per spiegare alle altre donne quanto sia “favolosa” la loro scelta di vita e quanto sarebbe vantaggioso imitarla. Oppure, alle consigliere e predicatrici in stile Costanza Miriano, alle quali (in realtà) nessuno ha chiesto consigli. Finché si tratta di vita privata, niente di male. Non sarebbe affatto malvagio neppure se le “donne sottomesse per scelta” combattessero per tutelare i diritti economici delle casalinghe,  accrescere il riconoscimento del loro contributo alla società e mettere in discussione il linguaggio discriminatorio (“casalinga di Voghera” ti dice qualcosa?). Ma se la propria “sottomissione per scelta” diventa invece un modo per negare diritti ad altri, insegnare “come essere donna” o scagliarsi contro chi ha intrapreso un altro percorso di vita, allora non si tratta più di un atto di libertà, per quanto inusuale.

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