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InterviStorie - Intervista con Simone Dini Gandini

simone dini gandini
Ho avuto il piacere d’incontrare Simone Dini Gandini in occasione della Giornata della Memoria 2017. Nato a Viareggio nel 1986, si è laureato in Lettere e ha collaborato nell’area stampa con la Fondazione Carnevale di Viareggio e la Fondazione Festival Pucciniano di Torre del Lago Puccini. È un prolifico autore di storie per bambini, ricche al contempo di brio, umorismo e preziose riflessioni. Ha composto versi, racconti, testi teatrali e libretti d’opera. Nel 2014, è stato uno dei vincitori del Premio Letteratura Ragazzi di Cento. Ha rilasciato un’InterviStoria per via del suo titolo più conosciuto e apprezzato: La bicicletta di Bartali (Torino 2015, Notes Edizioni). Esso, infatti, parla di eventi e personaggi storici reali. 

1)   Hai già raccontato innumerevoli volte del modo peculiare in cui ti è venuta l'idea per il tuo fortunatissimo libro. Ti va di raccontarlo anche ai lettori di questo blog?


23 settembre 2013. La bicicletta di Bartali nasce quel giorno, al tavolo di un bar sulla spiaggia nella mia città. Come altre centinaia e centinaia di volte, mi trovavo a prendere un caffè con due amici e, come altre centinaia e centinaia di volte, a turno, diamo un’occhiata a La Gazzetta dello Sport. Quel giorno, però, il 23 settembre 2013, mi sorprende la presenza di un’intera pagina dedicata a Gino Bartali. Che c’entra oggi - penso - il 23 settembre 2013 una pagina per Gino Bartali?! Leggo l’articolo e mi innamoro della storia. In quel periodo, infatti, alla memoria di Gino Bartali (scomparso nel maggio 2000) lo Stato di Israele conferiva l’onorificenza di Giusto fra le Nazioni per aver salvato, durante la Seconda Guerra Mondiale, la vita a oltre 800 persone. In che modo? Trasportando nella canna della bicicletta documenti falsi per conto di un’associazione clandestina toscana, la Del.As.Em, Delegazione Assistenza Ebrei Migranti, nata dopo l’8 settembre ‘43 per volontà del vescovo di Firenze Elia Dalla Costa e del rabbino Nathan Cassuto. Ovviamente, mi innamoro della storia e, in breve tempo, ne nasce un libro, che dal 2015 a oggi conta undici ristampe e una versione teatrale ufficiale, un melologo che presto vedremo su Rai 5.

2)  Quali fonti (orali, scritte...) hai impiegato per ricostruire la vicenda?

La ricerca delle fonti è stata abbastanza facile, in realtà. In quei giorni, di Bartali e del suo impegno a favore degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale se ne parlava un po’ ovunque, specie su giornali autorevoli e documentari televisivi. Ma la fonte principale per la mia storia è stato senza dubbio il fascicolo ufficiale sul sito della Regione Toscana, che in prima persona (se si può dire per una Regione…!) si era spesa affinché alla memoria di Gino Bartali venisse conferita l’onorificenza di Giusto fra le Nazioni. Non so se sia tuttora presente sul sito ufficiale della Regione - immagino di sì - ma il fascicolo in questione conteneva tutti gli elementi ufficiali, appunto, tra testimonianze, documentazioni e ricostruzioni che hanno portato lo Stato di Israele, tramite lo Yad Vashem, al conferimento dell’onorificenza in questione.

 

3)  Non dimentichiamo che La bicicletta di Bartali è un libro per bambini. Quali difficoltà si possono incontrare nel parlare della Shoah ai più piccoli? O, per certi versi, è addirittura più facile?


Sinceramente, non saprei risponderti. La bicicletta di Bartali è una storia che ho scritto quasi di getto ed è venuta fuori proprio così come la leggiamo oggi. Il focus poi, paradossalmente, più che su Bartali, è su questo personaggio di invenzione, un giovane repubblichino tifoso sfegatato proprio di Bartali, che si trova costretto a ispezionarne la bici dopo l’arresto (che invece è realissimo): si potrà toccare la bicicletta di Bartali? Si potranno poggiare le mani dove le poggia lui mentre sfreccia verso i traguardi di tappa al Giro d’Italia e al Tour de France? E si potrebbero mica fare due pedalate sulla sua bicicletta…?

Il libro si costruisce come una fiaba, è breve e contiene in appendice una testimonianza di Andrea Bartali, figlio di Gino e unico depositario dei segreti del padre: credo siano questi gli elementi che hanno contribuito alla diffusione de La bicicletta di Bartali. Stante, ovviamente, l’eccezionalità e la meraviglia della vicenda che si racconta!

Per cui, ecco, non saprei davvero parlarti delle difficoltà legate alle specificità del pubblico di riferimento. Anche perché credo - e questo che posso affermarlo con sicurezza - che i bambini siano in grado di affrontare qualsiasi tematica, a patto che sia raccontata con un linguaggio a loro vicino. Forse la chiave di volta è lì, più che nei temi: nella lingua.


4)  Nel parlare di un periodo storico tanto drammatico, non hai rinunciato alla tua tipica ironia. Come si fa a conciliare l'umorismo con la tragedia? O l'umorismo è fatto apposta per permetterci di affrontare le tragedie?

Non solo sono toscano, sono pure viareggino: vivo nella città del Carnevale, anche volendo non saprei come esprimermi altrimenti! L’ironia è una parte fondamentale della mia vita; egoisticamente, mi piacerebbe che lo fosse anche per il resto del mondo. Credo che l’ironia non solo esorcizzi le difficoltà più o meno grandi che affrontiamo ogni giorno, ma abbia proprio un ruolo antropologico nel dare le giuste dimensioni alle nostre miserie quotidiane. Serve a prenderci meno sul serio. A ridefinire i contorni del nostro ego. Nel caso specifico de La bicicletta di Bartali, l’ironia è un elemento probabilmente genetico, ma vorrei anche sgomberare il campo da fraintendimenti: non sminuisce di un’unghia la tragedia della guerra, della Shoah o l’eroismo di Gino Bartali. Il solco su cui mi muovo è lo stesso de - e bada bene lo dico solo come riferimento, come stella polare, guai a pensare che mi paragoni, eh! - il solco, dicevo, è lo stesso de La vita è bella di Roberto Benigni, che non a caso è toscano pure lui. Qualcuno potrebbe dire che l’ironia e la comicità del film sminuiscano la tragedia che racconta? Assolutamente no.

5)  La bicicletta di Bartali è una storia toscanissima. Quanta ispirazione artistica ti dà la tua regione d'origine?


Cerco che sempre di mettere la Toscana nelle mie storie. Anzi, cerco di metterci proprio Viareggio. Senza mai nominarla direttamente, infatti, la mia città è lo sfondo de L’Ibis di Palmira e il merlo ribelle e, in maniera più evidente seppur dissimulata, di Soffia, Libeccio!. Forse, è per dare credibilità alle storie. Forse, agganciare le storie a luoghi che conosco mi aiuta a raccontarle, a renderle più vere. O forse, più semplicemente, è solo che sono innamorato del posto dove vivo, che ha millemila difetti, ma è il posto migliore dove vivere.


6)  "Questa è una storia bella come una fiaba ma anche come la verità, quando è bella e vera e coraggiosa." Come si fa a stabilire la verità storica, in mezzo a tante fonti tendenziose? E come si fa a trovare il fiabesco nella storia?

 Il fiabesco è una lente con cui guardare la realtà che ci circonda. Lo dico sempre ai ragazzi che incontro nelle scuole, nelle biblioteche o nei teatri: ogni luogo può essere magico, ogni angolo di casa propria o della propria classe può essere sfondo di una storia meravigliosa. E poi il meraviglioso è il bello dei libri: chi vuole trovare una serie di nozioni giustapposte su Gino Bartali non è a un libro di narrativa (per quanto storicamente accurato, come in questo caso) che deve rivolgersi, così come chi cerca notizie storiche sul 1600 è meglio che apra un volume di storia piuttosto che I promessi sposiCon questo non voglio dire che il mio lavoro su Bartali sia di fantasia, anzi. L’aderenza storica è, boh, forse al 96%. Però, a un certo punto, le ragioni della narrativa superano inevitabilmente quelle storiche: mi riferisco, ad esempio, al momento della scarcerazione di Gino Bartali, che per ragioni appunto narrative faccio combaciare con la liberazione di Firenze, sebbene nella realtà storica così non sia stato. Per cui ok, bellissimi e suggestivi i libri e i film storici, ma non perdiamo mai di vista il fatto che ci si trova pur sempre di fronte a un’opera di narrativa.

7)  Dell'impegno di Gino Bartali per salvare i destinati ai lager non si seppe alcunché, finché lui era in vita. Se non fosse stato un famoso campione sportivo, probabilmente non si sarebbe saputo alcunché nemmeno dopo. Quanto contano gli "eroi invisibili" nella storia?

 Gino Bartali non ha mai raccontato a nessuno del suo impegno a favore degli ebrei durante la guerra. Nemmeno alla moglie. Solo negli ultimi anni della sua vita ha iniziato a raccontare alcuni episodi al figlio Andrea, all’epoca un uomo già adulto, legandolo però alla promessa del silenzio. Si deve ad Andrea, quindi, l’inizio di tutto il processo di riconoscimento, non a Gino. Naturalmente, c’era un gruppo di persone più o meno ampio che conosceva cosa avesse fatto Bartali; in fin dei conti, faceva pur sempre parte di un’associazione, non agiva da solo. Se poi la tua domanda è più del tipo “perché si fa tutto un gran parlare di Bartali e non dei suoi colleghi alla Del.As.Em”, ad esempio, potrei risponderti che forse abbiamo bisogno di riconoscerci in qualche eroe noto. È così dai tempi dei greci se non da prima, da sempre. Senza contare che la vicenda di Bartali fa parecchio eco, visto che in quel momento specifico aveva tutte le possibilità per prendere baracca e burattini e mettere in salvo se stesso e la sua famiglia; eppure, questo ragazzo alla soglia dei trent’anni decide di rimanere in Italia e mettere tutto a repentaglio, persino la propria vita, per salvare quella di completi sconosciuti. E mi piace concludere con un’osservazione che mi sono sentito fare da un’insegnante durante un incontro, qualche anno fa. Mi suggerì di ricordare ai ragazzi che non bisogna per forza salvare la vita a 800 persone per essere considerati eroi: bastano piccoli gesti quotidiani volti a migliorare la nostra vita e il mondo che ci circonda per essere considerati tali. Non vedo come darle torto, riconoscimento pubblico o meno.

8)  Un tuo libro poco conosciuto, La favola blu (2014, Marco Del Bucchia Editore), parla di Egisto Malfatti. Chi non si occupa del Carnevale di Viareggio e di cultura locale toscana, probabilmente, non l'ha mai sentito nominare. Ci parli un po' di lui e della sua eredità artistica?

Egisto Malfatti è un poeta chansonnier che ha riscosso meno fortuna di quanto meriti. Invito tutti ad ascoltare alcune delle sue canzoni su YouTube, da Miriordo in là, perché hanno quel gusto malinconico e leggero così intrinseco all’anima di Viareggio e del suo Carnevale, fatto di carta di giornale e colla di farina. Ne Le lezioni americane, Calvino descrive la leggerezza come un’operazione di sottrazione di peso: serve quella, la leggerezza, per fare il Carnevale, per fare l’ironia, la satira. E soprattutto per i mascheroni di cartapesta: se non fossero leggeri, cadrebbero al suolo! Leggerezza, dunque, è la parola chiave di tutto. Leggerezza, sì. Ecco, Egisto Malfatti è stato l’anima poetica del Carnevale di Viareggio e del teatro dialettale, la Canzonetta, dagli anni ‘50 fino ai ‘90. Pesca nella sua memoria, racconta la sua infanzia e la Viareggio dei primi del ‘900, ricostruita attraverso la lente della nostalgia. E poi, con la sua perizia tecnica, ha fatto un’iniezione di poesia nella leggerezza del Carnevale, ne ha nobilitato lo spirito boccaccesco. Insomma, per come lo vedo io (e lo sentiamo a Viareggio), Egisto Malfatti è un poeta con tutti i crismi. E, siccome a giorni il Carnevale di Viareggio festeggerà i primi 150 anni di vita, non vedo occasione migliore per ricordare lui e la sua poesia.

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