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InterviStorie - Intervista con Giada Trebeschi

Siamo arrivati a un’attesissima puntata delle nostre InterviStorie: l’incontro con un’altra signora del romanzo storico, Giada Trebeschi. 

Giada Trebeschi

È una nota autrice italiana di bestseller storici, thriller, romanzi, racconti brevi, saggi, sceneggiature e pièces teatrali. Ovviamente, però, il grande pubblico la ama soprattutto per i suoi romanzi storici, accurati e appassionati allo stesso tempo.

Ha conseguito due lauree e un dottorato in Storia. Ha lavorato all’università come storica di professione per quasi dieci anni. In seguito, ha deciso di dedicarsi principalmente alla scrittura e alla ricerca. Continua i contatti con il mondo accademico ed è invited lecturer in varie Università, fra cui Liverpool, Catania e Urbino, in cui si occupa principalmente di Storia. È inserita nell’anagrafe degli storici italiani per la Storia Moderna.

Parla cinque lingue ed è interprete simultaneo per alcuni noti autori internazionali come Tim Willocks, Petros MarkarisClemens Mayer, Alex Connor, Daniel Cole, K & K, Wulf Dorn e altri. Ha vissuto a lungo in Svizzera, in Spagna e attualmente vive e lavora in Germania.

            Su Instagram e Tiktok, cura La rubrica delle parole desuete, alla quale si ispira anche un’agenda. Il suo notevole curriculum non finisce qui e potete visionarlo sul sito della Oakmond Publishing.

 

1)    Sei direttrice editoriale della Oakmond Publishing. Cosa cerchi nei romanzi degli autori emergenti?


In generale, cerco romanzi in primis ben scritti e con qualcosa da raccontare senza banalità.

 

2)    Sei stata attrice teatrale professionista. Potresti spiegare ai "profani" cosa sia il metodo Stanislavskij e in che modo ti aiuti a delineare i tuoi personaggi?


Sono ancora un'attrice professionista e, al momento, porto in tournée spettacoli che scrivo a quattro mani con Giorgio Rizzo.
Il metodo Stanislavskij studia la psicologia del personaggio che l'attore deve interpretare con un’introiezione e una ricerca intima da parte dell'attore di quelle emozioni e caratteristiche da interpretare, per rendere poi il personaggio sul palco tridimensionale e plausibile. Se si sostituisce attore con scrittore e palco con romanzo, il gioco è fatto.

 

3)    Il vampiro di Venezia prende il titolo da un ritrovamento archeologico: quello di uno scheletro femminile con un mattone in bocca. La poveretta era stata seppellita così perché creduta un Nachzehrer, un vampiro "masticatore di sudario"... Potresti parlarci un poco di questa credenza e di come possa essere giunta nella città lagunare?


Venezia, fra il XV e il XVII secolo, era una delle porte del mondo: una città multietnica in cui tutto si poteva trovare e comprare, un luogo in cui si parlavano molte lingue e i mercanti arrivavano da tutti i luoghi conosciuti. Dunque, non è difficile intuire come dall'Austria e dai paesi nord orientali fosse arrivata questa credenza. Inoltre, in tempo di pandemia (in quel caso di peste) la popolazione ignorante è portata molto più che in altri momenti a credere alle superstizioni. I masticatori dei sudari erano lo stato primitivo del diventar un succhiasangue: si credeva che, masticando il proprio sudario, le mani, i corpi vicini, si potesse prendere la forza per uscire dal sepolcro e restare in vita suggendo il sangue ai vivi per vendicarsi dei torti subiti. Inoltre... no, basta: per conoscere meglio questa superstizione, la cosa migliore è leggere il romanzo.

4) Leggendo Il convento dei segreti, viene spontaneo il confronto con la Monaca di Monza... La celebre storia manzoniana ti ha davvero dato lo spunto per questo romanzo?


Non è stata la Monaca di Monza, né Storia di una Capinera a darmi lo spunto per il romanzo, ma la documentazione archivistica sulle monacazioni forzate degli archivi siciliani, in particolare di quello di Catania. Come i miei lettori sanno, parto sempre da un fondamento storico reale e poi creo il romanzo. Ovviamente, vi sono nel testo echi sia di Manzoni che di Verga, con addirittura qualche citazione nascosta che mi sono divertita a mettere fra le righe.

 5) Su Tiktok e su Instagram, hai creato La rubrica delle parole desuete, per spiegare al grande pubblico storia e significato dei vocaboli non più usati. Quanta voglia di cultura c'è a livello diffuso?


Non so se la si possa definire voglia di cultura, ma io trovo che ci sia soprattutto nelle nuove generazioni il desiderio di imparare, ma in un modo nuovo, che è quello che cerco quotidianamente di fare con la rubrica. Forse, lo vogliono chiamare in un altro modo; ma il desiderio di imparare, a mio avviso, è già cultura.

6) Hai un curriculum di studiosa invidiabile, ma non disdegni i "frivoli" social media. Pensi che il divario fra cultura "alta" e cultura "popolare" sia ancora profondo, in Italia? Se sì, quanto possono contribuire i social a colmarlo?


La commedia dell'arte, De Filippo, Molière e Shakespeare (solo per citarne alcuni) sono popolari, eppure sono cultura alta. Il divario è negli occhi di chi guarda. I social possono solo solleticare la voglia di approfondire raccontando in un modo più leggero cose che normalmente sono considerate pesanti, come la storia, la letteratura, la lingua. Ma è solo il primo gradino, perché, se ci si ferma lì, si rimane in superficie e allora poco conta.

7) Le personalità come la tua dimostrano che l'alta cultura può benissimo convivere con l'umorismo, la creatività e una sana leggerezza. Quanto farebbe bene (o male) agli intellettuali perdere definitivamente l'aureola, come diceva Baudelaire?


La leggerezza e l'ironia sono assolutamente necessarie per la vita e la cultura è vita. Il riso, come diceva Bachtin, è terapeutico, esorcizzante e la satira linfa vitale per capire, distruggere e ricostruire meglio. Gli intellettuali veri lo sanno, così come sanno di non sapere (come diceva Socrate) e, dunque, non si definirebbero intellettuali.

8) La migliore compagna dell'intelligenza è la passione: sei d'accordo con questo?


Certamente sì. Intelligenza e passione. E, aggiungerei, ironia.

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