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Beltane: luci di primavera


Abbiamo vissuto un maggio decisamente sottotono. Stiamo cercando di riprenderci da una pandemia e dall’isolamento forzato che ne è conseguito. Il calore della primavera inoltrata non sembra lo stesso degli altri anni. Eppure, questa è sempre stata una stagione di luce e di vitalità…
            Ne parla anche Gian Mario Andrico, noto storico locale, in uno dei suoi volumi: La Bassa tra cronaca e leggenda (1989, ed. Grafo, Consorzio Bassa Bresciana Centrale). Fra gli altri, esso ospita un capitoletto intitolato “Gli antichi ‘fuochi di Beltane’” (pp. 143-144). Si riferisce alla consuetudine di festeggiare gli inizi di maggio con grandi falò, secondo un’usanza celtica. Tali fuochi sono da lui descritti come “caduti in disuso e celebrati soprattutto al Nord” (op. cit., p. 143). Andrico cita questa festa in quanto Brescia si trova in un’area un tempo abitata dai Celti. Parlare di Beltane, però, significa soprattutto trattare dell’Irlanda, della Scozia e dell’Isola di Man: proprio dalle varietà di gaelico ivi parlate è nato il nome di questa festa, che significa “fuoco brillante”. Possiamo trovare questa informazione alla voce “Beltane” di Wikipedia in inglese, come sempre ben fornita di fonti (al contrario della variante italiana). 
beltane primavera celti

La stessa pagina sottolinea le origini pastorali di questi fuochi del 1 maggio: era il momento dell’anno in cui le greggi venivano condotte ai pascoli estivi e il fuoco doveva proteggerle. È noto il conforto psicologico di una luce nelle notti all’aperto… ma anche la sua pratica funzione di scaldare i pastori e tenere lontane le belve. Da qui, il passo a più ampio senso di “beneficio” era breve… I falò di primavera si caricarono di vasti significati di protezione, anche spirituale. La fiamma viva rimandava al calore, all’ottimismo, alla vitalità della stagione, che si sperava riportasse la massima fertilità possibile a terra, uomini e bestiame.
L’antropologo J.G. Frazer, ovviamente, parla anche di Beltane, in quella sua opera monumentale che abbiamo più volte citato: Il ramo d’oro (1890). Lui colloca questa usanza proprio nelle Highlands scozzesi e sottolinea il fatto che i falò fossero accesi in ogni luogo in cui le greggi pascolavano (J.G. Frazer, The Golden Bough, Edinburgh-London 2004, Canongate, pp. 571-572). Intorno ad esso, si mangiava, si cantava e si danzava (J.G. Frazer, op. cit., p. 572-3). Come sottolinea Andrico nel libro e nel capitoletto che abbiamo citato, scene come questa diedero forma alle dicerie medievali sui Sabba, ove, per l’appunto, non mancano mai fuochi, danze e figure caprine adatte a qualsiasi mondo pastorale. Musica, fiamme e zampe di capra sono anche gli ingredienti fondamentali delle fiabe popolari bresciane sulle streghe, come si può ritrovare negli scritti di Giovanni Raza (in particolare, Madóra che póra! Storie e leggende della Valle Trompia, 2015). Materiali folcloristici come quelli legati ai fuochi di Beltane e alla loro memoria disegnano una linea ideale dalle isole britanniche alla nostra area bresciana, perché le tradizioni popolari sono ben più antiche dei confini nazionali e non li riconoscono più di tanto.
            Quello che più conta oggi è che, a non riconoscere confini, sia la ripresa della vita sociale ed economica dopo la pandemia, nata da una globalizzazione di tipo ben diverso da quella che ha permesso di condividere storie e fuochi apotropaici.

Pubblicato su Paese Mio Manerbio, N. 153 (maggio 2020), p. 14.

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