Ha fondato due band (C15
e Melatti), componendo canzoni ha imparato l’arte del racconto.
Quando scrive tiene il tempo con il piede.
“Scrittista-Musitore” è la definizione che più gli si addice
perché per lui non c’è distanza tra la chiave di violino e quella di lettura.
Nel 2016 scrive Il
Capitolo che non c’era di Pinocchio (Ed. Ifix), i suoi racconti sono stati
pubblicati da Rai Eri e l’Erudita, “tutto il resto sono bugie”
.
Caro Alberto, per avere un ruolo fisso nella società civile si deve fermare il mondo, conviene spiegare (o raccontare?) qualcosa (e a chi?)?
In una società dove gli istinti di molti stanno tornando a livelli primordiali, l’unico modo a mio avviso per provare a rieducare è quello di raccontare. Il racconto è la prima forma d’intrattenimento a cui tutti abbiamo fatto da spettatori. Ognuno di noi è stato almeno una volta sulle ginocchia o tra le braccia di qualcuno ad ascoltarne uno. Nel racconto si possono celare tanti trabocchetti per portare il lettore a notare un punto di vista diverso dal proprio; dirglielo apertamente in faccia, quindi spiegare che forse dovrebbe guardare oltre, costruisce immediatamente un muro tra le parti; non ti dico che il razzismo è il pensiero più idiota che una mente umana possa produrre, te lo racconto attraverso la storia di chi ne è stato vittima, facendoti credere che tu, paladino della razza, ne sia il protagonista, mentre invece ne sei la causa.
Uno show di successo può fare a meno della Parola?
Della parola non si
può fare a meno, la parola è ragionamento, ricerca di una soluzione, ma deve
rimanere comprensibile. L’interlocutore deve sapere parlare a chiunque,
analizzando chi ha davanti. Quando entro in un museo per esempio, oltre le
opere, m’incanto a leggere sulle pareti allestite le frasi degli artisti, il
loro pensiero. Quelle parole o sono state il perché di quel processo creativo o
una conseguenza di esso; l’arte è madre e figlia di un pensiero nello stesso
istante.
Ti lasci rapire dalla malinconia per farti ritrovare dall’ironia?
Mi lascio rapire dalla
curiosità. Sono molto attento a ciò che vedo in giro, una sorta di comare di
paese che però non sparla, ma scrive. Uso una tecnica appresa quando praticavo
arti marziali sfruttando la forza dell’avversario. A cosa serve arrabbiarsi,
condividere se si è indignati? Prendo quel pensiero e lo trasformo nel mio
punto di forza, lo analizzo e lo ridicolizzo. La malinconia spesso mi affligge,
mi scoraggio quando ciò che vedo ha solo un punto di vista, quello becero di
chi lo ha partorito; quando hanno immortalato un ragazzo che tentava di
reggersi in equilibrio su una delle rotaie che portavano ad Auschwitz, mi sono
solo chiesto l’equilibrio dove stesse.
È meglio perdere tempo a riflettere sui proverbi o a rispondere
agl’indovinelli?
Gli indovinelli
vogliono una risposta e spesso chi la pone lo fa da sopra un piedistallo,
preferisco di gran lunga i proverbi, perché in essi c’è già la soluzione ed è
l’unica da seguire, perché figlia di una saggezza popolare che non tradisce.
Ognuno di noi dovrebbe averne sempre un paio a portata di mano, non per
declamarli, bensì per ripeterseli in determinati momenti. Personalmente il
proverbio “Nessuno ti regala niente” lo tengo sempre a mente quando ti
propongono chissà quale offerta fantasmagorica; per non parlare di un detto
romano un po’ colorito che mi fa tenere sempre la guardia alta, perché “Quanno
è giornata de’ piallo ar culo, er vento t’arza la camicia”.
L’umanità ha smesso oramai di sorprenderci, e magari perché non abbiamo
più modo d’educare un essere vivente (e se sì, a cosa in particolare?)?
Mio nonno aveva un
asino che ogni giorno faceva sempre la stessa strada, dalla stalla all’orto e
viceversa. Se si formava una buca nel terreno, e disgraziatamente ci finiva
dentro, dal giorno dopo l’avrebbe evitata per sempre. L’uomo invece tende
ciclicamente a ricaderci dentro e non contento sguazza nel fango che nel
frattempo si è andato formando. Non sono un padre, ma vedo come molti figli di
oggi vengono educati; si ricorre al giudice se il maestro non li elogia, li si
manda a fare pianoforte, scherma, danza, ma solo per avere del tempo libero per
andare a pilates. Una cosa che consiglio a ogni famiglia è quella di creare un
circolo di lettura casalingo, ogni componente legge lo stesso libro e dopo
dieci giorni se ne parla tutti insieme. La stessa cosa andrebbe fatta con i
dischi. Non si può precludere l’evoluzione di un adolescente da determinati
testi, da determinati artisti. Mi appello ai maestri, ai professori: “Siate
quel docente che ogni alunno porterà nel proprio cuore per sempre, lasciate in
loro il ricordo di chi gli ha dato le chiavi per crescere”.
Vedi Roma, e…?
T’innamori di una
città decantata da chiunque, ma che le parole per raccontarla sembrano non
bastare mai. Chi parla male di Roma lo fa perché l’invidia lo corrode dentro,
chi ne parla bene ancora non ha visto tutto di lei. Roma riesce a stupirti con
i suoi vicoli, con le persone, l’importante è aprire noi stessi al dialogo e
imparare a conoscersi. Chi non lo riesce a fare vede il nemico ovunque, quando
l’unico da cui dovrebbe guardarsi le spalle è proprio se stesso.
Ci racconti dell’ultimo sconto che hai ricevuto?
Ogni volta che vado
nella mia libreria preferita, il direttore, sapendo della mia passione per i
libri, mi porge sempre un foglietto da presentare alle casse, dove c’è una
percentuale di sconto da applicare. Un gesto che apprezzo tantissimo, perché la
cultura crea legami forti, fa scoprire le carte di chi si ha di fronte e ti fa
capire con chi si ha a che fare. Ultimamente, quando gli ho regalato il mio
ultimo libro, c’ho tenuto a scrivergli sopra una dedica che partiva così: “Al
faro della carta…”, perché la capacità che ha lui, nell’indirizzarmi su un
autore piuttosto che su di un altro, crea in me sempre nuove rotte da seguire.
La musica è come l’amore, cioè va semplificata o complessata?
Dopo venticinque anni
di musica composta, suonata e tanti concerti, posso dirti che la musica deve
essere complessa nella sua semplicità. Fuggo dagli ascolti radiofonici
commissionati, dai dischi per l’estate; impazzisco davanti a un disco di Fossati,
di Battiato, di Gabriel, di Sinigallia o Tom Yorke; ho speso fortune per
assistere a concerti di artisti come Nick Cave o Paul McCartney, rimpiango di
non aver mai visto dal vivo Gaber. La prima cosa che faccio la mattina appena
sveglio è cercare di capire cosa voglia dirmi la canzone che mi canticchia in
testa; ogni giorno una diversa. Stamattina era “Sparring partner” di Paolo
Conte per esempio. Anche nei libri che scrivo c’è tanta musica, scrivo tenendo
il tempo con il piede; le parole hanno un loro ritmo, e se vuoi che una cosa
funzioni, beh, chiediti se è musicale.
Hai letto tutto quello che c’era da…?
… Leggere per capire me
stesso in quel particolare periodo. Ho un comodino pieno zeppo di libri e
diffido sempre da chi non ne tiene almeno uno sopra. Un giorno passato senza
pensare a un libro o a un disco che vorrei possedere è un giorno inutile.
È scientificamente provato che un artista…?
… E’ un drogato di
creatività. Da venticinque anni a questa parte non c’è stato un giorno in cui
non abbia preso una Moleskine in mano per appuntarmi un pensiero, una chitarra
o un pianoforte tra le dita, per regalargli un po’ di armonia. Oggi, in ogni
settore, cercano creativi, storytellers, qualcuno che sappia raccontare a
colori, ciò che in realtà è grigio; alla fine saremo sempre dei giullari, dei
saltimbanchi, coloro che in realtà non lavorano, ma si divertono. Partire da un
foglio bianco e creare il tuo mondo, è qualcosa di divino. L’artista ha solo
due nemici da cui deve allontanarsi: l’idiota e l’assorbi-energie. Ne ho
conosciute tante di persone che bastava stargli accanto una giornata per
sentirti svuotato.
In conclusione, un ringraziamento può ancora rivelarsi eterno?
Ringraziare sembra
essere diventato sinonimo di debolezza, quando poi ognuno di noi deve qualcosa
a qualcuno. Ne approfitto per ringraziare, in ordine cronologico di
ispirazione:
- Prince: il suo genio mi aprì la
mente che ero ancora adolescente.
- Italo Calvino: per aver scritto il
“Visconte dimezzato”.
- Il Baglioni di “Oltre”: per avermi
insegnato cosa volesse dire comporre.
- Ivano Fossati: perché i suoi testi
sono la mia bibbia.
- Giorgio Gaber: per avermi
insegnato che tutto è possibile, se raccontato bene.
- Peter Gabriel: perché la mia
musica, dopo “Come talk to me”, non fu più la stessa.
- Truman Capote: per aver scritto “A
sangue freddo”.
- Teho Teardo: per avermi insegnato
che la musica, anche la più estrema, può arrivare a chiunque e ovunque, basta impegnarsi ed essere coerenti
con se stessi.
- A Lidia: perché se non hai una
persona ogni giorno che ti supporta e ti sopporta, non andrai
mai da nessuna parte.
- I miei gatti: perché
accarezzandoli mi donano tutta la calma di cui ho bisogno.
Alberto Fiori riesce a scrivere, per immagini spettacolari
ed esplicite, storie e di conseguenza destini che chiedono d’essere ascoltati,
con un surrealismo di vita vissuta.
I racconti sono dunque di un’intensità visionaria e realista
tale ch’è impossibile tradire degli umori velati.
Scrittura fulminea, addirittura pretenziosa a tratti come
uno scarabocchio, caratterizzante una superficie eternamente riflettente, fuori
da ogni moralismo; col tentativo di uscire dai soliti schemi a rendere visive e
potenti le suggestioni, in storie che si alternano di continuo con
gl’improvvisi azzeramenti dei dialoghi.
I tempi della parola sono feroci, sviluppano gustose
varianti tra personaggi dalla presumibile popolarità, di vasto consenso.
L’autore è in grado di legare con un filo rosso degli
stereotipi, non si tratta quindi solo di un accumulo dei medesimi nel segno
della leggerezza.
Si sfiora spesso la macchietta con l’impegno sociale e la
rabbia, il coacervo di rifiuti sulla presenza umana è un emblema volutamente
sgangherato.
La potenza allegorica acutizza le osservazioni dei fenomeni,
mentre la forma del testo resta leggibile e piacevole, pur essendo poco
omogenea.
Il piacere della lettura viene agevolato con muscolare,
cruda spettacolarità, dov’è ben chiaro chi sono i buoni e i cattivi.
L’autore dosa ironia e introspezione specie per interrogarci
su quello che ci diciamo quotidianamente, su confini da esplorare
preferibilmente puntando il dito sull’impoverimento linguistico, che
appiattisce il tutto… pertanto accadono imprevisti tragicomici.
Varie voci mantengono una loro coerenza rischiando di
sovrapporsi, impreziosendo i botta e risposta tra luoghi comuni… libro da
leggere potendo partire da qualsiasi punto, grazie alla capacità dell’autore
d’immergere le storie nella cruda realtà senza rinunciare a scavare nella
psicologia dei personaggi per rivelarne sentimenti profondi e origini
inconfessabili.
Il tentativo di critica socioculturale, pur sempre
apprezzabilissimo, è sospeso in universi cupi, claustrofobici, che accennano al
grottesco.
Libro d’impianto teatrale, ciò ch’è stato scritto è lo
specchio di ciò che si fa secondo lo scrittore, ch’è come se lanciasse semplici
sguardi d’immagini di parole… il titolo effettivamente non è altri che un
espediente in equilibrio tra risata e indignazione, a proposito d’intime
vicissitudini, su cui si potrebbe fare una macroanalisi.
Il lettore può toccare l’urgenza creativa come anche
rievocativa di un autore affabulante, che si contraddistingue come un
piacevolissimo compagno di lettura, che con malinconica autoironia cancella il
grossolano… non v’è la protervia del cantore e l’insistenza del censore, ma
vivibilità e coloratezza con tutti i nervi del perbenismo di facciata allo
scoperto.
Racconti mai banali, che sviluppano momenti molto godibili,
con stereotipi e cliché non forzati… libro che non cede dunque ai
sentimentalismi, non esiterei a reputarlo buffo, piuttosto scherzoso dacché
metaforicamente congeniale per gli amanti dei deliri.
L’autore si permette di divertirsi con un lessico
arrembante, talvolta coscientemente eccessivo… in una frase rischia che ci sia
l’essenza dell’opera.
Non mancano rimandi alla genialità sovversiva, perciò il
ridicolo non ammorba mai, bensì varia, con squarci di surreale leggerezza.
Permangono figure e atmosfere di attendibilità sociologica e
di rappresentatività antropologica oserei dire, con una moderna semplicità e una crudele
nostalgia investite persino sulle autoparodie, oltre che sui profili tracciati
con familiarità e imprendibilità.
Come non voler bene a quest’autore, anche solo per come
rinfrescherebbe la memoria generalista al lettore da subito, ricordando il
Pippone nazionale, che, sancendo la fine di ogni puntata del più classico dei
programmi d’intrattenimento trasmessi sul primo canale tv nel pomeriggio del dì
di festa, passava il testimone a “90° minuto”!
Parole voraci data la sincerità di fondo raccolgono in
momenti divertenti una pochezza riconoscibile a forza di esigere concretezza da
cose stabili, forti come solo le emozioni possono essere.
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