Lei entra dalla porta a vetri e si avvia verso il bancone di
legno scuro. È una presenza familiare qui: non ostessa, non cameriera,
piuttosto una creatura di questo acquario caleidoscopico. Non è detto che ci
sia, ma la sua apparizione è naturale in ogni momento. La osservo da dietro i
miei libri, mentre i fondi del mio caffè s’impigriscono nella tazzina
abbandonata. Gli occhi grandi di lei seminano bagliori d’acquamarina, resi
tanto più ipnotici dalla cornice di pelle olivastra in cui s’incastonano. Lei –dal
viso alle labbra ai fianchi- è morbida e generosa come un frutto tropicale. Sul
capo, ha una selva di trecce rastafariane lunghe fin quasi alle sue caviglie e
crespe come radici. Lei è una creatura di nessun mondo –impossibile domandarsi
da dove venga. L’estate l’ha vestita d’un abito a fiori, lungo e leggero, che
culla i suoi seni colmi. Arrossisco e mi rituffo negli esametri greci.
Lei è una
delle tante forme in cui la femminilità si declina per blandirmi, con una punta
di spillo segreta e inseparabile da ogni turbamento. Avrei potuto parlare di
molte altre: dell’amica d’infanzia delicata e venerata come un gelsomino, della
compagna d’università misteriosa e intensamente adorata, della confidente che
mi faceva arrossire con la sua fiducia. Nessuno di questi fu un amore; ognuno era
vero.
Domani, ripenserò al mio fidanzato e ai nostri cinque anni
finiti con pacato e inevitabile dolore. Anche questo era vero.
“I
bisessuali non esistono”.
A pensarci bene, io sono una marea di cose che “non esistono”
(donna goliarda, catto-agnostica e ignorante in pornografia, per fare solo tre
esempi). Sono in-esistente. Esisto-in quella
cosa che chiamano “realtà”. E scusate se non chiedo il permesso per questo.
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