Nell’atmosfera odorosa della sala da the, F. mi accarezza la
mano.
«Quei due…» mormora. Si riferisce a J. e A. Il “Rosso” e il
“Nero”. Due bizzarre amicizie che hanno segnato il nostro immaginario, negli
ultimi tempi. Quello di F. per via degli interminabili battibecchi e frecciate
sui social network. Il mio per via di sommovimenti intellettuali e affettivi
intricati come le radici di un fiore selvatico.
«Loro sono contrapposti. Ma si possono contrapporre proprio
perché parlano lo stesso linguaggio… un certo cameratismo, uno spirito
combattivo… una forma di romanticismo… Un linguaggio che non è il mio.»
Gli sorrido con aria di sfida. «E io? Anch’io sono una…
romantica, secondo te?»
Pausa.
«Tu… tu ti poni già su un altro
piano…»
F. cerca le parole. Sul tavolo, la fiammella del lumino
ferisce la luce ovattata della saletta.
«Tu tendi a salvaguardare l’armonia fra le persone…»
prosegue lui.
Sorrido. «Dove c’è Marte, c’è Venere» chioso. Ma F. non
sembra soddisfatto del paragone.
«Erica… Pensa al Combattimento di Tancredi e Clorinda».
Annuisco. È una composizione di Claudio Monteverdi, tratta dal canto XII della Gerusalemme Liberata di
Torquato Tasso. Il crociato Tancredi
è innamorato della nemica Clorinda. Mentre lei è in incognito, la affronta in
duello e la uccide. La riconosce troppo tardi, in tempo solo per battezzarla su
richiesta di lei.
«Ecco,
Erica… pensa al modo in cui loro due combattono…
Tre volte il cavalier la donna stringe
con le robuste braccia, ed altrettante
da que’ nodi tenaci ella si scinge,
nodi di fer nemico e non d’amante…
(XII 57, vv. 449-452)
C’è un’ambiguità, in questa lotta. Sembra una scena d’amore,
invece è un duello mortale». (O viceversa, magari). «Ecco, Erica… tu ti trovi
in questa ambiguità.»
Deglutisco.
Ho pensato molte –troppe- volte alla storia di Tancredi, negli ultimi mesi. Sì,
vivo i miei conflitti con ambiguità, tanto che qualcuno mi ha rimproverato
d’aver impiegato miele là dove ci sarebbe voluto veleno.
Misero, di che godi? oh quanto mesti
fiano i trionfi ed infelice il vanto!
Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti)
di quel sangue ogni stilla un mar di pianto…
(XII 59, vv. 465-468)
È questo sentimento letale e dolcissimo che “il Rosso e il
Nero” non capiscono –neppure J., che pure sa sfoderare un’affinità
intellettuale quasi magica con me. Quando gli feci leggere un mio racconto,
intitolato appunto Tancredi, J.
m’accusò d’aver fatto concludere “a tarallucci e vino” il conflitto mortale fra
i protagonisti. Non capì che si trattava di una resa dei conti fra due anime
morte che si rispecchiavano. Per lui, esiste il codice d'onore giapponese: “Non bisogna avere esitazioni neanche nello
sferrare un colpo letale. In misura dell'avversario sconfitto, è doveroso
successivamente rendere onore alla salma con una degna sepoltura e con le forme
che sono previste dai propri costumi.” Nessuna sbavatura.
Io non sono un samurai. Io sono Tancredi. E, forse, non ci
vuole meno coraggio.
O mio cuore dal nascere in due scisso,
quante pene durai per uno farne!
Quante rose a nascondere un abisso!
(Umberto Saba)
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