Caro prof.
C.,
ripenso,
durante questa prolungata lontananza da Pavia, ai nostri distesi colloqui nel
Suo studio. Ripenso alla Sua paterna ironia, nel momento in cui Le dissi dei
miei rapporti con la Goliardia pavese: «Ma ragazzi… non vi sembra che queste
cose siano un po’ fuori tempo? Voglio dire… era la mentalità di una classe
privilegiatissima, di giovani che si sfogavano prima di entrare nell’azienda di
famiglia e dover essere serissimi per tutta la vita… Non fareste meglio a
occuparvi dei problemi che avete, di questa università sempre più simile a un
liceo…?» Ho creduto bene, con questa mia, darLe una risposta più articolata e
ponderata di quanto mi fossi potuta
permettere di persona. Soprattutto, perché il Suo (sit venia verbo) pregiudizio tenta diverse persone d'una certa cultura
e tacere davanti a ciò che non mi torna non è mio costume.
Innanzitutto,
la Goliardia non è una “mentalità”, ma uno spirito.
Significa che non deriva da un’estrazione familiare o da un’impronta
educativa. Né è patrimonio d’un ceto. Censo e provenienza di noi goliardi sono
alquanto disomogenei, stando a quanto posso vedere. Fra noi, ci sono i
fuorisede con un modesto lunario da sbarcare, così come i rampolli della “Pavia
bene”. Ma non ha importanza. Fra noi non esiste qualcosa di simile a una
“coscienza di classe”, quando, per avventura, non volesse chiamar tale la
nostra consapevolezza del legame con l’università.
Dicevo che
la Goliardia è uno spirito. La si
avverte spontaneamente, come il bisogno di respirare, appunto. E in cosa consiste? “Goliardia è cultura e
intelligenza. È amore per la libertà e coscienza delle proprie responsabilità
sociali davanti alla scuola di oggi e alla professione di domani. È culto dello
spirito che genera un particolare modo di intendere la vita alla luce di
un’assoluta libertà di critica, senza alcun pregiudizio di fronte ad uomini ed
istituti. È infine culto delle antiche tradizioni che portano nel mondo il nome
delle nostre libere università di ‘scholari’”. (Venezia, 6-8 aprile 1946, Primo
Convegno dei Principi della Goliardia Italiana). Tutte cose che non hanno
“tempo”, perché, come unica condizione, richiedono l’esistenza dell’università.
(Peraltro, è sempre “il tempo giusto” per essere se stessi).
E
qui arrivo alla seconda parte delle Sue perplessità. Che intende per “occuparvi
dei problemi che avete”? Per quel che mi riguarda, ho partecipato all’Onda
(2008) e ho trascorso una parentesi in un
collettivo universitario, prima d’esser “battezzata”. Conservo, da
goliarda, la coscienza che avevo allora: quella dell’importanza della
formazione umanistica per poter dialogare in modo critico col potere politico.
Quella della necessità di rifiutare ogni ricatto morale (“fate i bravi,
nevvero?”). Tendenzialmente, però, ci teniamo lontani dalla politica. La
Goliardia è apolitica per definizione (e tanti saluti a chi sbandiera la nostra
tradizione per farsi propaganda). Perché sposare un manifesto di parte sarebbe
in contraddizione con quell’ "assoluta libertà di critica" di cui sopra. Se di “problemi” si vuol parlare, uno è proprio la difficoltà a
trovare forme di associazionismo studentesco che non siano confessionali o
politicamente orientate. Per rilanciarLe la frecciatina, potrei dirLe che sono
proprio queste a essere “fuori tempo”… In un’epoca piena di contraddizioni,
dove non sono sicuri neppure i confini fra destra e sinistra, non è forse
legittimo sentirsi a disagio nei panni rigidi di una dottrina? Ben venga il
senso goliardico del paradossale, la nostra capacità di navigare in acque
diverse (dall’aula accademica all’osteria, dalla gerarchia alla beffa). Per
quanto Le sembri incredibile, poi, perfino noi siamo in grado di leggere
giornali e andare a votare. Ah, già: anche di studiare. Il che sarebbe il primo
dovere d’ogni studente, come dice la
parola. In più, però, abbiamo una coscienza d’appartenenza all’università che i
cosiddetti “ragazzi seri” non sempre hanno. Vuol dire che ci sentiamo in dovere
di camminare sulle nostre gambe nella ricerca del sapere, di non prendere mai
la nostra ignoranza come scusa, dato che vincerla dipende solo dalla volontà di
colmare le nostre lacune. Perché questo è
lo studio universitario. Se, oltre a ciò, sappiamo anche cantare la nostra
ubriachezza di vita, che male c’è?
Mi
permetto di aggiungere una nota: al mio animo goliardico vien male, se lo si
obbliga a prender(si) sul serio. Non riesco a liberarmi dalla sensazione che
tutto quel che si fa da studenti sia poco più che un gioco. Di certo, non
“cambia il mondo”. Noi preferiamo avere l’onestà intellettuale di dirci, come
su una rivista studentesca bolognese del 1922: “Chi siamo noi? Nulla o ben
poco. Eppure ora noi proviamo la più grande gioia della nostra vita: il piacere
di sentirci giovani”.
Lei
ha parlato di “sfogo”. Esso è comune a molti studenti. Non sono goliardi quelli
che svomitazzano alcool al mercoledì studentesco o alle feste collegiali. Però,
certo, nelle nostre riunioni e cene c’è anche lo “sfogo”. Nel senso che i
nostri frizzanti neuroni si compiacciono di prodursi in acrobazie
surreal-dialogiche, in stoviglie di forme evocative
(stile “addio al celibato/nubilato”) e in lanci di pitali, exempli gratia. C’è bisogno pur di
quello… anche se non abbiamo necessariamente un’azienda di famiglia ad
aspettarci al varco. Lo “sfogo goliardico” ha sicuramente preziosi effetti
antidepressivi, sui melancolici come me.
Intanto,
si va avanti. La Goliardia è carsica, per usare un’espressione cara anche a
Lei. Sembra scomparire, quando “non è aria” (guerre e turbolenze varie), e si risveglia nei periodi in cui può respirare. L’unico errore sarebbe dirla morta. Significherebbe che è morta l’università
propriamente detta –e chissà che quella “liceizzazione” di cui Lei parla non
miri a questo.
Per
quanto riguarda me sola, vale quell’aureo detto di Ludovico Ariosto (Satira II, vv. 148-151):
Ma chi fu
mai sì saggio o mai sì santo
che di
esser senza macchia di pazzia,
o poca o
molta, dar si possa vanto?
Ogniun
tenga la sua, questa è la mia…
Con
devoto affetto,
Erica
30 luglio 2013
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