La Nostalghia (1983) di Andrey Tarkovsky è paragonabile alla situazione di una statua
vivente: “Anch’io recitavo la parte di una di queste statue e sapevo che, se mi
fossi mosso, ci sarebbero state gravissime punizioni. Perché il nostro
proprietario e signore ci stava osservando…” Questo scriveva un musicista russo
esule in Italia. Un poeta suo connazionale si è posto sulle sue tracce, per
ricostruirne la biografia. Lo segue Eugenia, traduttrice di poesia. Per ironia
della sorte, non capisce affatto il compagno di viaggio, così come la
letteratura non vale a far sì che l’Italia capisca la Russia. Eugenia è
bellissima e insoddisfatta, sia intellettualmente che sentimentalmente. Cerca
di fuggire dalla propria fisiologia femminile; accusa di “bassezza” gli uomini
che hanno amato il suo corpo. Li incolpa della propria sterilità letteraria,
fino a maturare una forma di sessuofobia. A scontar le colpe dei suoi fantasmi
è proprio il poeta russo, combattuto fra la nostalgia della moglie e l’amore
nascente per la traduttrice. È un sentimento platonico e impossibile. E “gli
amori inespressi non si dimenticano”.
Gettando il filtro della traduzione, il poeta arriva alla “Verità”. Così, abbandonato da Eugenia,
può comunicare col “matto” Domenico (l’ “uomo del Signore”). Questi ha tenuto
sotto chiave moglie e figli per sette anni, in attesa della fine del mondo.
“Ero egoista, prima. Volevo salvare la mia famiglia. Bisogna salvare tutti,
invece”. Rimasto solo, medita sull’unità
di corpo e anima: 1+1=1; una goccia e una goccia ne formano una più grande. Ma
non riesce a far avvenire questo in se stesso e rimane scisso. Entrambi soli e
sovrastati da una Superiorità indefinibile, il poeta e il “matto/filosofo” finiscono per identificarsi, nel
comune bisogno di tornare alle basi elementari della vita, “senza più sporcare l’acqua”. Costantemente presente,
appunto, la piscina termale di “S. Caterina” (“colei che non è” davanti a
“Colui che è”). La salvezza dell’umanità sarebbe garantita, secondo Domenico,
dall’attraversarla reggendo una candela accesa. Allusione all’Esodo e alle
“vergini sagge” della parabola? Ma “candela” è anche la parola poetica, che si accende dopo la morte di chi l’ha scritta. È
“candela” un uomo che si consuma tutto, in una paradossale gioia di vivere, divenendo un Messia da imitare
ritualmente. Al poeta è concesso portare quel messaggio di salvezza che al “matto” non è permesso esprimere.
Nostalghia
della patria o nostalghia d’una
vita primeva (simplex, unitaria),
insieme al rimpianto per un bambino:
perduto, forse mai nato. Questi sentimenti angelicano ciò che è irrecuperabile
e fanno del ritorno un rito (l’ennesimo):
realizzabile solo in un recinto sacro, o nella solitudine di macerie che si
aprono come un paesaggio a volo d’uccello. I simboli si rincorrono e si ripetono: come le sigarette che
mascherano l’imbarazzo dell’incomprensione o i colombi che segnalano le vite
nascenti. Il tutto nell’ipnosi d’un ritmo lento, dei colori freddi e spenti,
col brivido della pioggia alternata a voci sommesse, nenie, preghiere e inni di
Beethoven. Il film di Tarkovsky si chiude in cerchio, a ribadire il senso del ritorno e dell’eterno.
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