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Leggendo “Fibre di possibilità”, di Sergio Messere

Sarebbe bene stringere uno e più fasci di nervi, come se fossimo stati dati alla luce da una durevolezza esterna, per la quale si avanza morbosamente e in alternativa si aleggia, bestemmiando nella speranza di nutrirci dell’essenziale. 

sergio messere fibre di possibilità

 Messere inquadra un’euforia segnata dallo sconforto come dalla liquidazione di una libertà non affatto introvabile nei percorsi che tracciamo; incuriositi d’anime trascinanti, che ci consigliano di distinguere la sostanza dalla forma per ogni bene primario, consumato da criminali perdonabilissimi, che preparano in complicità con le loro prede un pasto rappacificante.

“Siamo decadenti: sempre e poi sempre insaziabili

(…)

ove è la vita sterminato biliardo”.

 Succede allora di assistere lungi dall’identificarsi allo scorrimento altrettanto non evidente di entità, esseri disperati, dotti, folli, combattenti, malati, vittime estremizzate e dittatori, tutti uguali dacché irriconoscibili!

Sergio armonizza la parola rievocando una stagione come quella autunnale, arrotondando a suo modo d’immaginare per sempre ciò che l’umano si riserva; per una forma di detenzione scioglibile con la novità esprimibile da un nostro simile, purché umile e solidale volendo masticare la vita e quindi sacrificarci prontamente per l’estraneità pulsante, come se capaci di attrarre e basta.

“vita mia, sei stata la nota più squillante in uno spartito mai suonato”.

 Effettivamente l’osservazione dell’Io si estende su un vetro di riflesso spiazzante, e se ne accresce il dolore tra il cuore e l’idea di ascoltarlo, almeno per chi come Messere, che si muove cogliendo in sé desolazione, invocando il divino per i poveri, a ricostituire, irremovibile, la naturale sortita.

Il mondo fa venire i brividi ai sentimenti che s’imbestialiscono, fedeli alle loro origini tanto da rinchiudercisi, per una chiara esasperazione, agevolante l’alimentazione e l’animazione di ogni cosa (soffermatevi pure sulle raffigurazioni di Pietro Tavani all’inizio dei capitoli).

 Per il poeta, fibrilla una clessidra, come a dover numerare l’infinitesimale, quasi a offendere degli esserini, innocentemente incapaci ancora di tendere la mano come lo sguardo, di una delicatezza inconciliabile.

 

“l’ozio fiuta l’inganno e non ne vuol sapere

(…)

Bimbo dai pugni chiusi e dalle palpebre di seta

(…)

La tua voce (…) lenta e incessante emorragia dell’anima

(…)

Voglio vedere un questuante saltellare (…) nuvole di desideri volteggiare”.

Successivamente il nostro rimarca quel dono reintegrativo, elevato al femminile, di una Lei che ha sofferto, però fatto salvo il candore; proporzionale all’intervento anch’esso imprevisto, elevato al maschile, eseguito in modo rinsaldante, affettuoso.

“La mia mano ruvida sulla tua fronte”.

 L’ascolto consiste in un percorso interiore, languido, di una rigidezza da sciogliere, a fronte dell’annunciazione in grande stile se non addirittura insensibile degli strumenti che ricominciano a rendersi efficaci.

 Un sentimento convincente dà luogo a nessuna condanna, in particolare a quella del rosicare… piuttosto agevola l’indipendenza, quella buona per ritornare prima o poi a confortare, con un vissuto duro, quando dall’altra parte si è in stato febbrile.

 C’è spazio pure per i ricordi, quando si era bambini e ci accartocciavamo fuori dalle lezioni, giocando indiscutibilmente in mezzo a una natura chiusa e decadente, con un filo di sguardo da garantire alle pretese ormonali.

 Ma oggi soffriamo della mediocrità altezzosa, carta straccia in preparazione dell’Io; come se sicuri di limitare un elemento sovrumano, emarginando così soggetti insipidi, in fondo capaci di starsene isolati, a costituire il chiaro desiderio di rivalsa sull’oggi alquanto irrefrenabile, potendo far battere il cuore per istinto animale, senza perdere di mordente, con umiltà.

 

“È il dominio degenere del surgere ansimante di fantocci di possibilità”.

 La più grande delle falsità si determina con l’imbarazzante insieme di principi circa il buonsenso, mentre dell’autorevolezza s’espande uscendo dal proprio essere spontaneo… da qui al bisogno di precisare una condizione vitale al calar del buio quotidiano il passaggio pare unico, obbligato.

 È come stare dentro a una chiesa incantevole benché intima, aldilà degli effetti salutari, con l’ispirazione a levarsi fuori ancora per la prima volta, immortale, per bagnare di luce possibilmente un viso di persona che si confessi a pelle.

 Affermazioni irrilevanti, miste agli attimi d’approfondimento e al pomeridiano infinito, comportavano la maturità per chi come Messere, che aspetta d’essere smossa nel bene come nel male, umanamente… poeticamente.

 

CATTEDRALE

Nulla

ti porta a danzare

all’estremo

come quando si è soli con se stessi.

Un silenzio incessante,

imponente,

che è musica.

All’interno di una cattedrale,

la propria.

O stai bene o stai male.

 Tecnicamente, generalmente lo stile di Messere è malinconico.

 Egli mostra d’essere cosciente della necessità di adattare il verso alla situazione vissuta o immaginata; dunque è aulico nei temi che tocca più che nei termini che impiega.

La sua esperienza individuale diventa certamente universale, tra scorrevolezza, intima direzione ed essenzialità.

Figure e atmosfere di attendibilità sociologica o di rappresentatività antropologica assumono un’intensità visionaria ma anche realista.

 I profili, tracciati con familiarità e imprendibilità, affascinano per l’estremo, lo straziante e il passionale.

La simbiosi con i lavori ad arte di Tavani da primo impatto “possibilista”, orbene, è di un’apologia morale, meccanica.

Le citazioni, ma soprattutto i riferimenti musicali classicheggiano velatamente, alla fine di alcune singole poesie.

Fisicità e sacralità sono intrise di parole spesso e volentieri lapidarie, perciò efficaci e dirette, a evitare inutili percorsi verbosi dilatanti le sensazioni fino all’annientamento.

Lieve come il vento o evocativa come un’opera d’arte, la poetica interessa strutturandosi quasi in maniera ipnotica.

 Parole allora persino potenti e dure, se nella loro radice di fedeltà e nell’ansia di bellezza e giustizia.

Implicazioni di simbolica forza cercano di accendere la luce sul senso del destino… di parole che in fondo passano e legano, di un autore che sa bene del suo onore.


Vincenzo Calò

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