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Mario Praz e il patto col serpente

Tre anni fa, ho scritto un post riguardante La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, di Mario Praz (Roma, 1896 - 1982). Figuriamoci se avrei potuto farmi sfuggire il suo seguito: Il patto col serpente (Milano 2013, Adelphi). 

hans baldung grien eve, serpent and death

            L’introduzione è del dicembre 1971 e spiega il significato del titolo: si riferisce al dipinto Eva, il Serpente e la Morte (1510-1530), di Hans Baldung Grien. Un’Eva sorniona e soddisfatta nasconde il famoso frutto dietro la schiena, mentre la sua mano si allaccia in un nodo con la coda del Serpente e le dita putrefatte della Morte. Insomma, è chiaro che si tratta di un patto. Ed è altrettanto chiaro che a guadagnarci è lei, l’autrice della grande trasgressione.

            Il “patto col serpente” è la scelta degli artisti di esplorare “il lato oscuro”: la malinconia, la fantasticheria perversa e mostruosa, la nevrosi, la follia. Sono lande tremende dell’animo umano, ma - tutto sommato - le “Eve” che scelgono di uscire dai confini rassicuranti per esplorarle ci guadagnano. Come recitano certi versi di Nietzsche citati a pag. 14, anche quello il “vecchio serpente” ha una sorta di paradiso. Dove altro potrebbe l’immaginazione scatenarsi più liberamente?

            Parlando di sogni mostruosi, non c’è da stupirsi che il volume cominci parlando di Johann Heinrich Füssli (1741-1825): si, quello dell’Incubo. Il dipinto è finesettecentesco, realizzato in varie versioni, e rappresenta una candida fanciulla oppressa nel sonno da visioni animalesche di grande concretezza fisica. Le esperienze oniriche sono un territorio scivoloso e inesplorato: lui ne ha tratto un’icona immortale. È anche il pittore dei personaggi shakespeariani, ritratti nelle loro ossessioni, nelle loro tenebre, nei loro atti terribili. Tali soggetti si accompagnano perfettamente con la sua vena teatrale. Nella sua capacità di rappresentare gli incubi, c’è tutto il suo classicismo.

            Passando dalla pittura alla letteratura, i due “maestri dell’orrore” che lo accompagnano sono Matthew Gregory Lewis (1775-1818) ed Edgar Allan Poe (1809-1849). Il primo è l’autore de Il Monaco (1796): il livello non plus ultra del romanzo gotico, che porta all’esasperazione tutti quegli stereotipi di magia nera, apparizioni spettrali, depravazioni, persecuzioni e situazioni macabre che il genere aveva reso familiari ai lettori. In effetti, Praz sottolinea come Il Monaco sia pieno di cliché e di melodramma à la page. Che sia stato questo a renderlo un bestseller, all’epoca? Si sa: i lettori affezionati amano non essere sorpresi. O, forse, è stata la sua capacità di stuzzicare segreti appetiti e curiosità?

            Quanto a Poe, non ha bisogno di presentazioni. Il suo nome è una garanzia. Di ben diverso, rispetto al gotico “alla Lewis”, c’è che le sue opere non sono frutto di un’immaginazione esaltata o di pruriti morbosi. Vengono da una vera vita di lutti, povertà e malattie - soprattutto psichiche. Chi vuol emulare un simile maestro deve essere pronto a bere dallo stesso amaro calice…

            Dopo i tre grandi dell’orrore, arrivano i Preraffaelliti. Cosa c’entra questa confraternita di pittori con le tenebre e la follia? Se ne è accorta la romanziera Joanne Harris, autrice de Il seme del male (1989): proprio le sensazioni morbose sottese al preraffaellitismo sono il vero motivo portante di questa particolarissima storia di vampiri. Donne dal pallore incredibile, con le labbra rosseggianti e i capelli ancor più rosseggianti… Nelle loro sembianze eteree, sono di una sensualità pericolosissima, perché fatta soprattutto di cervello. Sono belle soprattutto quando sperimentano la morte e la follia: pensiamo alla Beata Beatrix (1872) di Dante Gabriel Rossetti, o all’Ofelia (1851-1852) di John Everett Millais. Fra l’altro, queste tele hanno in comune la modella, Elizabeth Siddal: la sua vicenda personale di malattia, malinconia e depressione, coronata da un sospetto di suicidio, sembra fatta apposta per incarnare il lato oscuro dell’etereo Preraffaellitismo. Idealizzare, in fondo, è un po’ come uccidere: in entrambi i casi, si tratta di rimuovere la carne…

            Ed ecco che - come volevasi dimostrare - l’apoteosi preraffaellita della bellezza approda a lei: Lilith, la regina di tutti gli spiriti oscuri. Esistono una Lady Lilith (1866-1868) dello stesso Rossetti e una Lilith (1889) di John Collier, voluttuosamente avvolta dal serpente (giusto per rimanere in linea col titolo). Nessun simbolo è migliore per rappresentare la donna privata d’ogni freno e che ha conquistato il regno senza limite dell’immaginazione, andando ad abitare i sogni (maschili) proibiti.

            Solidamente carnale, ma non per questo meno sognata, era invece l’attrice Adah Isaacs Menken (1835-1868). Divenne famosa essenzialmente per un numero eseguito all’Astley’s Amphitheatre di Londra, il 3 ottobre 1864: nel Mazeppa di Lord Byron, lei recitava il ruolo del protagonista, condannato a essere legato sulla groppa di un focoso cavallo e ad essere trascinato via. La sua apparente nudità, unita all’irruenza dell’animale, infiammò le fantasie del pubblico e decretò la sua fama. Niente di meglio dell’animalità e del rischio per accendere i sensi, insomma. Almeno, quando il rischio non è troppo reale.

            Un’altra figura femminile (di genere ben diverso) è quella di Vernon Lee (1856-1935), pseudonimo di Violet Paget. Autrice inglese vissuta a lungo in Italia, incontrò realmente Mario Praz attorno al 1920. Lui poté quindi apprezzarne di persona l’ironia, la dialettica e la simpatia umana. Cosa la rendeva, però, eccezionale, rispetto ad altri scrittori e saggisti? Non l’erudizione (comunque notevole), ma la fantasia. Nessun’altra qualità può analizzare ciò che parrebbe inafferrabile ed effimero: i sentimenti e le sensazioni di cui l’arte è intrisa.

            Il volume di Praz è corposo. Impossibile riassumerlo qui. Prosegue, ovviamente, trattando dei padri dell’estetismo, di Baron Corvo, dei poeti oppiomani, dell’ossessione del pittore Oskar Kokoschka per una bambola che avrebbe dovuto divenire la sua compagna ideale… Procedendo lungo queste pagine, si viene sopraffatti dal grottesco e dal fascinoso nello stesso momento. Si arriva alla fine con la sensazione che il libro non sia terminato. D’altronde, come potrebbe il paradiso del serpente aver confini?

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