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La Befana vien di notte… ma da dove?


Con questo mese, finiscono le feste invernali. E l’ultima figura fiabesca a portare sogni e dolciumi è stata lei: la Befana… Ma chi è costei?  Dopo la fanciulla Santa Lucia, parliamo della sua anziana collega. 
la befana vien di notte

            Come recita la voce “Befana”, compilata da Raffaele Corso sull’ “Enciclopedia Italiana” (1930) consultabile sul sito Treccani.it, il termine deriva da una corruzione di “Epifania”. Ciò che conta del personaggio, dunque, è il suo legame col periodo dell’anno. La medesima voce enciclopedica narra infatti dei prodigi attribuiti dalle credenze popolari alle notti del suo passaggio: alberi che si coprono di frutti in pieno inverno; animali che parlano; acque che si tramutano in oro. Una notte perfetta per attendere regali (nel caso dei bambini) e responsi sulle future nozze (per le ragazze). Agli stessi giorni, è riservata la “befanata” toscana, che ha corrispettivi anche in altre regioni: un brano intonato da una comitiva, accompagnata da un suonatore, che va di porta in porta la sera del 5 gennaio a richiedere regali (un nostrano “Dolcetto o scherzetto”?). Si tratta, insomma, di una notte di abbondanza nel cuore della stagione più avara: un modo per riscaldarsi con la generosità e, forse, per sopravvivere.
            Ma la Befana non riscuote solo benevolenza. È chiara la sua affinità con la famosa “vecchia” che viene bruciata a metà Quaresima. I popolani di Firenze (come spiega ancora Corso), un tempo, preparavano un fantoccio a forma di Befana da esporre alle finestre. Il pupazzo veniva invece portato proprio al rogo, tra urla e fischi, dai contadini della Romagna toscana. In varie regioni, tra cui la Franca Contea, i falò sono ben tredici.
            Al di là dell’utilità del fuoco per illuminare e riscaldare le notti invernali, come mai questa ambivalenza?
            Ne parla Giuseppe Di Luca, nel suo libriccino Quando le feste erano cristiane (Roma 2011, Città Nuova). Nonostante il titolo, l’opera dà spazio anche alle origini antiche di taluni fenomeni folkloristici, la cui radice precede il famoso anno 0. Per l’appunto, Di Luca ricollega esplicitamente la vecchietta dell’Epifania alle feste contadine greco-romane per la fine dell’anno (pag. 32). Nello stesso luogo, menziona anche la somiglianza fra la Befana e la dea latina Strenia. Alla voce “Strenna” dell’Enciclopedia Italiana (1936), compilata da Gioacchino Mancini e da Raffaele Corso, il termine viene fatto risalire proprio al culto della dea Strenia, personificazione della salute e di origine sabina. Essa veniva festeggiata con doni detti strenae (appunto), scambiati dai Romani all’inizio di gennaio come buon augurio per l’anno nuovo.
            Di Luca aggiunge che, più ancora di Strenia, la probabile “antenata” della Befana è la dea Diana, che si riteneva volasse sui campi a propiziarne la fertilità, durante le dodici notti tra il 25 dicembre e il 6 gennaio (pag. 33). Peraltro, la stessa Epifania fu introdotta nel calendario della Chiesa occidentale solo nel IV secolo, innestandosi sul periodo delle feste del solstizio e del Sole vittorioso (Di Luca, op. cit., p. 31).
            Per poter rendere accettabile ai cristiani una figura ormai ineliminabile dall’immaginario diffuso, fu creata anche una leggenda: secondo essa, la Befana sarebbe stata una vecchietta che si rifiutò di accompagnare i Magi fino a Betlemme. Pentitasi, avrebbe in seguito cercato di rintracciarli, per unirsi a loro e omaggiare il Bambinello. Da allora, avrebbe proseguito la propria vana ricerca, portando doni a tutti i bimbi, nella speranza che uno di loro fosse il piccolo Gesù (Di Luca, op. cit., pag. 33).
            La Befana personifica dunque l’attesa di un nuovo anno fertile, del ritorno delle belle stagioni. La sua bruttezza è quella della natura bisognosa di rinnovo, quella delle scorie da bruciare. Oltretutto, va al rogo come simbolo di un “mondo pagano” rifiutato. Sia come sia, la coriacea vecchietta, come una strana fenice, sembra saper rinascere dalle ceneri.



Pubblicato su Paese Mio Manerbio, N. 150 (gennaio 2020), p. 10.

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