Temo che gli animali vedano nell'uomo un
essere loro uguale che ha perduto in maniera estremamente pericolosa il sano
intelletto animale:
vedano cioè in lui l'animale delirante,
l'animale che ride, l'animale che piange, l'animale infelice.
(FRIEDRICH NIETZSCHE)
La dea Afrodite a cavallo di un cigno, animale sacro a lei e ad Apollo (dalla tomba F43 Kameiros, Rodi). |
Una
mia conoscenza di Facebook, in un paio d’occasioni, ha espresso gradimento per
il mio “interesse verso le altre forme di esseri viventi, al di là di cani e
gatti.” Non ho mai aderito ad associazioni di stampo animalista. Però, mi par
che valga la pena di spendere qualche parola in merito. Perché la questione
tocca un nodo di fondamentale importanza spirituale: il rapporto fra Uomo e Animale, intesi come due
componenti di uno stesso essere.
Per “Uomo”, s’intende qui qualcosa
di assai simile all’Ego freudiano e
al λογιστικόν platonico: la capacità
di elaborare regole e/o aderire ad esse, in accordo con altri. È usualmente
attribuita all’uomo, perché strettamente legata alla facoltà del linguaggio: emissione di suoni
articolati secondo schemi morfologici e sintattici.
Da qui, deriva il cosiddetto specismo: la convinzione della naturale
signoria umana sulle altre creature viventi, consegnate al suo arbitrio o alla
sua misericordia, in virtù dell' "eccezionale intelligenza" dell'Homo. Una posizione condivisa dalle religioni abramitiche, nelle quali il mezzo della “Rivelazione
divina” è la Parola, il λόγος. Ovvero: uno strumento tipico dell’Uomo.
Lo specismo può poi imboccare due
strade. Una è quella dello sfruttamento,
giustificato come “legge naturale”: “Tu mi sei inferiore nella capacità di
giudizio, perciò sono autorizzato a far di te ciò che voglio.” Posizione assai simile al maschilismo e al razzismo.
L’altra è quella della protezione e del senso di colpa: “Poiché, per natura, ho raziocinio e autocontrollo
superiori, debbo negarmi la soddisfazione delle pulsioni psicofisiche cui non
so dare una spiegazione etica. Anzi, mi sento in colpa per il fatto stesso di
sentirle.”
Entrambi gli atteggiamenti, per
quanto sembrino diversi, si fondano (a mio avviso) sul medesimo errore: svalutare l’Animale.
Esso
è qui inteso come la (vasta) parte della vita psichica che non rientra
nell’Uomo: i fenomeni interiori che non possono essere codificati in regole e
civiltà, ma che fanno inalienabilmente parte di noi. Se l’Uomo cerca di
sottomettere l’Animale, per sfruttamento capitalistico o virtù
automortificante, si generano nevrosi nell’individuo e inquinamento,
estinzioni, violenze nei rapporti con gli altri.
Indagandolo e ascoltandolo con la
pienezza dell’intelligenza lucida, l’Animale può essere invece maestro e fonte di forza. La sua caratteristica è il dire sì alla vita, per ciò che essa è - e non
per come la vorremmo o la crediamo. È la parte di noi che ci dà l’amore per se stessi, senza chiedere
approvazione allo specchio o ai codici socioculturali.
Dall’Animale, impariamo a osservare
le esigenze degli altri esseri, senza avvertire disagio per le nostre: quelle
di una creatura cui la Natura non ha dato grandi strumenti di sopravvivenza,
all’infuori di un elaborato encefalo per progettare e sofisticate mani per
plasmare.
L’Uomo
non sempre ama l’Animale, ma sempre l’Animale
ama l’Uomo - e tutto ciò che è senziente. Non è quell’ “amore” sdolcinato
che andrebbe correttamente chiamato “fragilità emotiva”. L’Animale sa anche uccidere. Ma non lo fa mai per
noia, nevrosi, incuria, guadagno, piacere o “dimostrazione di superiorità”.
Sovente, non è proprio interessato alla violenza - e basta. Quando non sente
fame o l’incolumità è salva, perché uccidere? Questo l’Animale cerca di dire
all’Uomo - e l’Uomo si attribuisce volentieri questa saggezza.
Che l’Homo sapiens sapiens si denudi delle false immagini di sé, come chi
si siede in meditazione zen. Che veneri nei viventi, d’ogni regno, le
espressioni della multiforme bellezza della Vita - che ha desiderio di se stessa, come dice il Profeta di Gibran.
Così, si avrà un profondo e totale Animalismo.
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