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Il realismo di Caravaggio e l'autunno del Manierismo

I corsi della Libera Università di Manerbio (LUM) hanno compreso anche un incontro di storia dell’arte, al Teatro Civico: “Il realismo di Caravaggio e l’autunno del Manierismo” (15 ottobre 2015). Il relatore era il prof. Martino Pini, già conosciuto come ex-insegnante di scuole medie e docente della scuola di disegno compresa nella LUM. Lui stesso aveva scelto un sottofondo musicale, tratto dalla colonna sonora del Barry Lyndon girato da S. Kubrick. Con quelle note, l’uditorio è stato calato nell’intensità e nella drammaticità di Caravaggio. Allo stesso tempo, il prof. Pini ha inquadrato questa figura all’interno del cosiddetto Manierismo. Il termine indica l’arte di fine Cinquecento e deriva da “maniera”, il termine che il biografo Giorgio Vasari (1511-1574) impiega col significato di “stile proprio di un pittore”. Per l’appunto, gli artisti dell’epoca si formavano sulla “maniera” di Michelangelo, Raffaello, Tiziano e Leonardo. Un’altra caratteristica che accomuna i pittori del periodo è il senso di sbigottimento, dovuto al crollo delle certezze precedenti. Con la rivoluzione copernicana, l’uomo non è più al centro dell’universo; la Riforma protestante scuote il Cristianesimo. La natura non è più impiegata come modello: la pittura la distorce, in forme allungate e dilatate.
            Michelangelo Merisi (1571-1610) deve il proprio nome al paese d’origine della famiglia, ma nacque a Milano. Essendosi formato in Lombardia, conobbe la pittura del Moretto, del Romanino, del Savoldo, del Moroni, del Lotto: artisti noti per i giochi di chiaroscuro e per il realismo. Oltre alla formazione in bottega, ebbe la possibilità di studiare e di frequentare nobili e intellettuali. Della sua produzione giovanile, in Lombardia, non rimane però niente. Un enigma che gli storici dell’arte non hanno ancora risolto, secondo il prof. Pini.
            A Roma, trovò le prime commissioni illustri. Il relatore ha passato in rassegna i primi capolavori noti. Il Bacchino malato (1594) è un autoritratto che osa rappresentare il realismo della malattia. La buona ventura (1596/97) studia le differenze psicologiche fra due volti. Il Ragazzo morso da un ramarro (1594/95), con le parole del prof. Pini, “inventa la fotografia”: la fissazione di un movimento istantaneo. Nel Riposo nella fuga in Egitto, dello stesso periodo, vanno notate la suggestiva resa del crepuscolo, l’umanità della Madonna e – soprattutto – il panneggio vorticante dell’angelo. Il luminismo sarebbe dovuto a un influsso veneto; le volute arricciolate del panneggio, invece, anticiperebbero il gusto barocco. 

            Le opere successive, come le Storie di S. Matteo e la Crocifissione di S. Pietro, mostrano il sapiente uso del chiaroscuro per rappresentare la luce della grazia e la lotta fra il bene e il male. Nei dettagli, indicano anche la lezione di Michelangelo Buonarroti. Giuditta e Oloferne (1599) fa rivivere le scene cruente delle esecuzioni. Le ultime opere del “pittore maledetto”, che passava dagli onori all’infamia, mostrano un’evoluzione “esistenzialista”. Il realismo dei personaggi popolani dà spazio ai toni terrosi. Il Davide che regge la testa di Golia (1609/1610) mostra probabilmente due versioni (giovane e matura) dell’artista: una riflessione sconsolata sulla propria vita.

Pubblicato su Paese Mio Manerbio, N. 102, novembre 2015, p. 20.

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