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Spiritualità

La religione ci divide come uomini, la spiritualità ci unisce. (Alice T. Crowe, African Spirituality Network)

Spiritualità. Questa parola ha generalmente un sapore d’arcano, d’ecclesiastico o di ciarlatanesco, a seconda dei contesti. È impalpabile tanto quanto il concetto che indica.
Perciò, anche per “deformazione accademica”, mi rivolgo alla concretezza del dizionario, impregnato d’inchiostro e polvere. Spīrĭtŭs, ūs, secondo i sempiterni L. Castiglioni e S. Mariotti, ha una vasta gamma di significati, di cui i primi sono soffio, aria, respiro. Il pragmatismo latino fornisce dunque una traccia tanto semplice quanto eloquente per definire il significato di “spiritualità”. Essa sarebbe il modo di respirare
I praticanti zen, a questo punto, potrebbero aver molto da dire. Però, la definizione di cui sopra non ammicca solo alle tecniche giapponesi di meditazione. È sensualmente incarnata anche dalle vetrate gotiche, polmoni di luce per le chiese del XIII - XIV secolo. È esemplificata dalle volute aeree uscenti dalle colonne dell’organo, il cui suono fa pensare autenticamente al respiro d’una creatura immane e immersa nel divino. È visibile nel fumo degli incensi, che ha onorato forse ogni dio nato dall’antichità a oggi. Potrei forse parlare ancora: di templi, di danze, di inni, di nenie.
Spiritualità è il modo in cui l’uomo respira all’unisono con ciò che lo circonda, coi suoi simili e con le altre creature. Le dottrine che insegnano come raggiungere questo unisono sono differenti fra loro e fortemente influenzate dalla contingenza storica, dal retaggio culturale di cui sono cariche, perfino dalle mosse operate sullo scacchiere politico. Il che le rende più o meno contorte, più o meno ripide. Una via spirituale, per quanto ambisca all’Eterno e all’Universale, non può che essere tracciata su questa terra, seguendone le asperità.
Ma non può essere detta spirituale, se non insegna all’uomo a inalare ciò che è vitale per lui e a emanare i segni del proprio esser vivo: l’equilibrio nelle emozioni, l’empatia con gli altri esseri viventi, l’operosità posata e la creatività generosa. Se esiste qualcosa d’universale, fra gli uomini, è proprio questo tendere alla vita, intesa come lo svolgimento armonico delle proprie funzioni fisiche e psichiche –alla pari d’un corpo in cui nessun umore è in squilibrio e gli arti non sono né troppi, né troppo pochi. Questa salute (spesso, purtroppo, più ricercata che attuata) è al contempo del singolo e della collettività in cui vive. Se il soddisfacimento di pulsioni e ambizioni può portare alla dicotomia tra “individuo” e “società”, ciò non avviene con la ricerca della “perfezione spirituale”. Perché la serenità d’un uomo singolare e concreto porta alla sua benevolenza e collaborazione coi suoi simili. In uno stato di “perfezione spirituale”, poi, non ha neppure senso la consunta contrapposizione tra “fede” e “ragione”, tra raziocinio e sentimento. Nell’uomo e nella comunità spiritualmente perfetti, ogni ambito della psiche troverebbe la propria collocazione e funzione, senza voler sopraffare gli altri. Il calcolo non pretenderebbe di dirigere i sentimenti, le emozioni personali non chiederebbero di dettare le decisioni d’importanza comune, la sperimentazione non vorrebbe aver luogo di certezza e le metafore mitologiche non soffocherebbero le scienze.
Questo rispondo sia a chi storce il naso davanti a ogni olezzo di incenso, sia a chi vede “superbia” nel voler raziocinare circa le credenze attempate. L’Homo sapiens è rationalis e religiosus allo stesso tempo, che ciò piaccia o meno. Per questo, non posso che oppormi a chi vuol stabilire la superiorità d’una forma di sapere sull’altra, anche  (e soprattutto) quando lo faccia col pretesto del “bene dell’umanità”. Il bene dell’essere umano sta nell’essere intero.

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