"Il mondo in cui viveva ed aveva la sua patria, il suo mondo, la sua vita claustrale, il suo ufficio, la sua dottrina, l'edificio così ben organizzato dei suoi pensieri, erano stati spesso scossi e resi incerti dall'amico. Senza dubbio, dal punto di vista del convento, della ragione e della morale, la vita dell'abate era migliore, più giusta, più costante, più ordinata e più esemplare, era una vita di ordine e di servizio rigoroso, un sacrificio continuo, uno sforzo sempre nuovo verso la chiarezza e la giustizia, era molto più pura e più buona che la vita di un artista, di un vagabondo, di un seduttore di donne. Ma da un punto di vista più alto, dal punto di vista di Dio, l'ordine e la disciplina di una vita esemplare, la rinuncia al mondo e alla felicità dei sensi, la lontananza dal fango e dal sangue, il ritiro nella filosofia e nella devozione, erano davvero meglio che la vita di Boccadoro? L'uomo era davvero creato per condurre una vita regolata, di cui ogni ora ed ogni azione fossero annunciate dalla campana che chiama alla preghiera? L'uomo era davvero creato per studiare Aristotele e Tommaso d'Aquino, per sapere il greco, per mortificare i propri sensi e per fuggire il mondo? Non era egli creato da Dio con sensi ed istinti, con oscurità sanguigne, con la capacità del peccato, del piacere, della disperazione? [...] Sì, e forse non era soltanto più ingenuo e più umano condurre una vita come quella di Boccadoro; in fin dei conti era forse anche più coraggioso e più grande [...] In ogni caso Boccadoro gli aveva mostrato che un uomo destinato all'alto può scendere molto giù nel groviglio ebbro e sanguinoso della vita e insozzarsi di molta polvere e di sangue, senza tuttavia diventare meschino e volgare, senza uccidere in sé il divino; gli aveva mostrato che poteva errare per profondi ottenebramenti, senza che nel sacrario della sua anima si spegnessero la luce divina e la forza creatrice. [...] da quando egli aveva visto uscire dalle mani macchiate di Boccadoro quelle figure meravigliosamente vive nella loro placidità, trasfigurate dalla forma e dall'ordine interiori, quei volti profondi illuminati dall'anima, quelle piante e quei fiori innocenti, quelle mani supplici o benedette, tutti quegli atteggiamenti arditi o soavi, fieri o sacri, da allora egli sapeva che in quel cuore incostante di artista e di seduttore c'era una pienezza di luce e di grazia divina. [...] Questo artista, dal cuore pieno di contrasti e di miserie, non aveva creato per un numero infinito di uomini, presenti e futuri, dei simboli della loro miseria e della loro aspirazione, delle figure, a cui potevano rivolgersi la devozione e la venerazione, l'angoscia e la nostalgia d'infinite creature, e trovare in esse conforto, appoggio e incoramento? [...] Com'era povero egli stesso, l'abate, in confronto, col suo sapere, con la sua disciplina claustrale, con la sua dialettica!"
HERMANN HESSE
(Narciso e Boccadoro, Milano 1989, Oscar Mondadori, traduzione di Cristina Baseggio, pp. 270-272)
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