“Ogni
reverentia et pudore è alieno da li bagnaroli, che non si vergognano petare,
cacare, rutare et pissare in publico, mostrando spessissime volte senza rubore
li culli, cazi et pote…” Non è un ubriacone al bar, ma Floriano Dolfo che
scrive al marchese Gonzaga (1494). Per descrivere la giornata tipo alle terme
di Porretta, non si fa scrupolo di sciorinare termini che farebbero impallidire
le oneste comari e i padri di famiglia. Il signore di Mantova (bontà sua!) se
li leggeva in pace; le nostre
mamme/maestre/nonne, in vista d’un improbabile debutto a Versailles, si sono
affannate a sradicarceli dalla bocca, senza misericordia per la nostra (allora)
tenera età. Per vendicarci dell’infanzia tartassata, ci possiamo però rivolgere
a potenti santi in Paradiso, fra i quali Dante
Alighieri (1265-1321). Il Sommo Poeta, infatti, non si perita di descrivere
una “sozza e scapigliata fante/che là si graffia con l’unghie merdose” (Inf. XVIII, vv. 130-131). Naturalmente,
precisa che “Taide è, la puttana…” (ibid.,
v. 133). Questo per non citare solo quello, il solito “ed elli avea del cul
fatto trombetta” (Inf. XXI, v. 139).
Per restare nella rubrica “Galanteria e altri guai”, Ludovico Ariosto (1474-1533) dà consigli su come assicurarsi la
fedeltà delle mogli: “…si sveglia il mastro, e truova/che ‘l dito alla moglier
ha ne la fica.//Questo annel tenga in dito, e non lo muova/mai chi non vuol
ricevere vergogna/da la sua donna…” (Satira V, vv. 323-327). La verità –dice una vecchia canzone-
fa male. Ha fatto sicuramente malissimo a Niccolò
Machiavelli (1469-1527), quando ha scoperto che un suo appuntamento al buio
l’aveva gettato fra le braccia della più orrenda megera mai partorita. A un suo
più fortunato amico, ammette: “Voi, fottuto che voi avesti colei, vi è venuta
voglia di rifotterla […] io non credo, mentre starò in Lombardia, mi torni la
foia” (lettera a Luigi Guicciardini, 8 dicembre 1509). Meglio non ripensarci –e
lamentarsi, piuttosto, del caro collega Ariosto, che, nella conclusione dell’
“Orlando Furioso”, ha ricordato molti poeti, ma lasciando il povero Niccolò
“indreto come un cazo” (17 dicembre 1517).
E
che dire di Giacomo Leopardi (1798-1837)?
Il “nerd” del XIX secolo, una volta tanto, lascia perdere l’ “ermo colle” e la
sua Silvia per vuotare il sacco su Francesco Cancellieri: “è un coglione, un
fiume di ciarle” (al fratello Carlo, 25 novembre 1822). Del resto, caro Leo,
quando ci vuole, ci vuole.
L’ha
capito anche l’azzimato Giovanni Verga (1840-1922),
che scodellava romanzi a puntate per le dame eleganti, prima di cimentarsi con
pescatori, arrampicatori sociali e cave di rena rossa. Fa sudare sette camice
al suo don Gaetanino, attore dilettante, che, nel ruolo del “Paggio Fernando”,
“diventava un minchione”.
Se
certi vocaboli sono sventolati da cotanti autori, cos’è successo? Come funziona
la detronizzazione delle parole? Più o meno, si è ripetuto ciò che capita tutti
i giorni, quando si porta la spazzatura al cassonetto. Ciò che ci ricorda la
nostra corporeità viene rimosso come “sgradevole”. Perché è “umano, troppo
umano”, direbbe F. Nietzsche. Cosicché, i vari “cazi”, “culli”, “pote” vengono
pudicamente rivestiti di metafore, che svolgono, alla bell’e meglio, la
funzione di foglie di ficO (occhio alle vocali!). Dante, Ludovico, Niccolò,
Giacomo e Giovanni vengono cortesemente relegati sugli scaffali: salvo, poi,
essere presentati come indispensabili modelli di lingua italiana, quando si
tratta di giustificare i programmi scolastici. Il loro posto, nell’educazione
verbale, viene, di fatto, occupato da vari personaggi perbene, che sostanziano
i propri insegnamenti con votacci e/o scapaccioni. Così nasce la “parolaccia”:
da un’occhiata storta ricevuta da bambini, per aver pronunciato due sillabe
fino allora innocue. Conviene, allora, dare retta a tutt’altra citazione:
“vuolsi così colà dove si puote/ciò che si vuole” (Inf. III, vv. 95-96). In altre parole: tra Dante e la mamma, vince
sempre la mamma.
E si sa, nulla c'è di più totalitario della famiglia. Anche Kim-Jong Un lo dice sempre.
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