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Addio mia concubina


Chen Kaige racconta la contraddittoria, tormentata Cina del XX secolo. E lo fa scegliendo, quale linea portante, l'opera lirica di Pechino. Come se la cultura cinese potesse essere veramente espressa solo da quei colori accesi, quei gesti ieratici, quelle maschere demoniache e sublimi insieme.
Quando Addio mia concubina vinse la Palma d'Oro al Festival di Cannes, nel 1993, qualcuno pensò che fosse una concessione al gusto corrente, sulla scia di Lanterne rosse. Eppure, il film di Kaige va molto oltre quell'esotismo compiaciuto che ha talora adescato l'Europa. Addio mia concubina spicca il volo nelle nubi della storia, dell'amore e -soprattutto- del destino. Un destino che travolge il Re e la sua Concubina in una delle più famose opere liriche cinesi. E che trascina con sé anche l'interprete della Concubina, l'attore Cheng Dieyi.
Consegnato ad una vita di emarginazione sociale, perché figlio di una prostituta, il piccolo Douzi trova un'opportunità di riscatto grazie allo scatto di coraggio della madre: ella ne ottiene l'ammissione all'Accademia dell'Opera di Pechino, dopo avergli amputato quel dito in più che aveva provocato un iniziale rifiuto del maestro. Cominciato nella sofferenza, il cammino di Douzi prosegue sulla stessa strada: il percorso per diventare attore prevede un durissimo addestramento, che lo renderà in grado di eseguire acrobazie e di imporre al proprio corpo quei movimenti studiatissimi, eterni imposti dalla tradizione (perfino i passi sono contati). Soprattutto, dovrà rinunciare alla propria identità virile, per sostenere il ruolo che lo renderà famoso: la Concubina di un valorosissimo Re. Questa rinuncia, per quanto dolorosa, sarà però l'unico modo per restare accanto all'amatissimo compagno Shitou.
Una volta adulti,  essi divengono attori famosi, coi nomi d'arte di Cheng Dieyi (interprete della Concubina) e Duan Xiaolou (interprete del Re).


Nel frattempo, la Storia, intorno a loro, procede. Dal 1937 al 1945, la Cina subisce l'invasione giapponese. Ma l'opera deve andare in scena. E, mentre la guerra ribolle tutt'intorno, sul palcoscenico nulla muta. Le antiche arie, gli antichi gesti si scandiscono come le stagioni.
Eppure, la Storia riesce a vendicarsi di quest'apparente invulnerabilità. Per farlo, si serve dell'amore: Cheng Dieyi è costretto a barattare la libertà e la vita di Xiaolou, arrestato dai giapponesi, con un'esibizione davanti agli invasori. A farlo cedere sono anche le preghiere di Juxian, la giovane moglie dell'amato. Una figura per la quale Dieyi prova sia empatia che odio. Juxian è una delle incarnazioni del destino di Dieyi: come la madre di lui, proviene da un bordello.
Di prostituzione, in un certo senso, sarà accusato anche l'interprete della Concubina: dopo il 1949 e la Rivoluzione comunista, lo spettacolo d'un uomo che si rende donna sul palcoscenico, perfettamente normale nelle antiche tradizioni, sarà considerato qualcosa di morboso. La famosa esibizione davanti ai giapponesi sarà anche imputata a Dieyi come alto tradimento, divenendo un incancellabile stigma.
Con l'avvento della nuova cultura comunista, inizia il declino per il mondo dell'opera: simbolo e prodotto della "vecchia Cina", nella quale erano vivissimi quei "mostri e demoni" che i giovani vogliono smascherare.
Neppure la società gerontocratica e rigidissima dell'Accademia sarà più concepibile. Dieyi aveva vissuto il dolore ed il castigo come strumenti di fortificazione, di superamento di sé. Il suo giovane allievo li rifiuterà, vedendovi null'altro che un vilipendio alla propria dignità. Questa "nuova società" si vendicherà della vecchia, rappresentata da Dieyi, nel modo più crudele possibile: l'allievo prenderà il posto del maestro nel ruolo di Concubina, sottraendogli quella che è ormai divenuta la sua identità, l'unica pelle dentro la quale possa vivere.
La rivoluzione comunista, interna alla cultura cinese, riesce là dove gli invasori non avevano potuto nulla: a scardinare quel mondo ieratico, circolare e perpetuo come il tempo. Ma ci sono persone per le quali il cambiamento non porta salvezza: è il caso di Juxian, che si impicca perché Dieyi ne ha svelato pubblicamente il passato, spingendo anche Xiaolou a rinnegarla. Il dondolìo del suo corpo è accompagnato da una canzone: "...ti racconto la rivoluzione,/ eroismo e tragedia..." La rivoluzione è anche questo: una donna che muore perché la modernità non la salva da antichi pregiudizi.
Un altro passo di quel destino funebre che segue Dieyi fin da ragazzino, fin da quando un suo compagno d'accademia si era impiccato (come Juxian), dopo aver realizzato il desiderio di mangiare mele candite, simbolo della sua felicità solo immaginata.
Forse, proprio la morte lo consacrerà alla sfera del sogno, l'unica dimensione in cui il cuore di Dieyi potrà essere appagato. Ancora una volta, la via è indicata dal ruolo ormai interiorizzato: come la Concubina che interpreta, il giovane si uccide con la spada del suo Re. Le ultime parole ripetono, consapevolmente, un suo lapsus infantile, segno di combattuta identità sessuale: "Ed io, che son fanciullO per natura,/ donna non sono, né mai sarò."



Una morte che riecheggia, in sottofondo, una riflessione che era stata rivolta a Dieyi da un altro attore celebre: "Vedi queste penne di fagiano? Il segreto per cui sono rimaste così lucenti, così seriche... è che le ho strappate dalla coda di un fagiano."

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