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La città degli animali

In una villa lussuosa e spettrale, nasce un bambino curiosamente bestiale e aggressivo, perennemente nascosto in gabbie e culle sigillate. Il mostriciattolo viene espulso dal mondo dorato con un espediente biblico, l’abbandono sulle acque. Come Mosè, tornerà per assumere il comando e minacciare i primogeniti di coloro che l’hanno reso un reietto. È Pinguino (Danny DeVito), l’uccello che non può volare – l’uomo che non può viver con gli uomini

            Diversi metri sopra di lui, Selina (Michelle Pfeiffer) è giovane e carina, ma si fa sbeffeggiare dall’imprenditore a cui fa da segretaria, Max Shreck (Christopher Walken). Giusto per non lasciar niente al caso, questo gelido zerbinotto quasi settecentesco ha un nome omofono a quello dell’attore che interpretò Nosferatu nel film del 1922. Anche lo Shreck in questione è un vampiro, goloso dell’elettricità che vorrebbe sottrarre ai concittadini e apportatore della peste dell’inquinamento. Peccato che il suo zimbello, Selina, scopra questa doppiezza. Curiosity killed the cat, “la curiosità uccise il gatto”, l’unico essere vivente con cui la bella disprezzata riesca ad avere una sintonia.
            Infine, c’è lui, il bel tenebroso destinato a inselvatichirsi sempre di più, nella sua caverna lussuosa e spettrale come la villa natia di Pinguino e come un intero mondo di milionari anaffettivi: Bruce Wayne, meglio noto come Batman (Michael Keaton).
            Batman Returns (1992) mi ha attratto per due sole ragioni: il regista, Tim Burton, e la presenza nell’elenco di film cult stilato dal sito A Study of Gothic Subculture. Mi ha lasciato in bocca un gusto vagamente orwelliano. Forse, per via della continua confusione fra animali e uomini, come accadeva nella Fattoria celeberrima. Oppure, perché anche Gotham City è una distopia, un modo fiabesco per parlare di ciò che è così vicino a noi da essere invisibile. “Gotham” è un modo gergale per riferirsi a New York e, letteralmente, significa “città degli sciocchi”. Poco conforta riconoscervi la quotidianità degli anni ’90.
            In quel minestrone di pacchianeria, consumismo, fogne e ciniche speculazioni, la criminalità è rappresentata da un circo caduto in disgrazia. Quello che, sul palcoscenico, è un numero da applauso, in strade e piazze è terrore. La meraviglia e l’illusionismo, scatenati fuori dallo spazio protetto del tendone, sono devastanti, dispiegano la natura sovversiva del riso.
            Batman sembra l’unico a rappresentare il servizio d’ordine, in una metropoli immensa. Ciò lo riscatta – a mio vedere – dal fatto di essere un tantino viziatello, come eroe: pieno di aggeggi ultratecnologici, con un guardaroba da fare invidia a una primadonna, può combattere senza nemmeno sgualcirsi il manto. Per di più, è amico e collega di Shreck. Non proprio una compagnia raccomandabile, per un baluardo del Bene. Ma quell’ambiguità fra castello e caverna in cui egli vive cancella il sospetto di una troppo facile felicità, oltre a quello di una scontata bontà.
            La solitudine si dirada, quando la notte di Gotham City accoglie un’altra inquilina: Catwoman. È Selina trasformata, o, meglio, finalmente divenuta se stessa. La sua curiosità felina l’ha uccisa e come gatto è rinata: seducente, agilissima, aggressiva. La sua morte alla vita di zimbello ha liberato la sua natura repressa, in un accesso d’isteria che avrebbe galvanizzato Freud e che ricorda il passaggio all’adolescenza. Come un’adolescente, Catwoman si dedica alle proprie vendette contro i “grandi”, i violenti e gli speculatori. Da ragazzina vitalista, quasi da Arancia meccanica, sono i suoi colpi. L’immenso negozio della catena Shreck, che lei fa saltare in aria, esplode con ricercatezza teatrale.
            Gotham City, da città degli sciocchi, diventa città degli animali. Gli unici abitanti capaci di azione e fantasia sono, invariabilmente, teriomorfi. L’uomo, per essere se stesso, deve saper tornare un poco bestia, come quando fa l’amore. Forse, è questo il senso dell’idillio fra Bruce e Selina. Si amano di giorno e si combattono di notte, ma si tratta da secoli di due facce della stessa medaglia (tanto per rispolverare Torquato Tasso e i suoi Tancredi e Clorinda). Le loro maschere servono solo a passare da una faccia all’altra di questa medaglia, come l’elmo di Clorinda. I due abitanti della solitudine sono così gli unici a essere pienamente se stessi in un mondo di farse e fantocci, a sapersi trovare davvero Face to Face, come cantano Siouxsie and the Banshees. Lo stesso discorso vale per Pinguino, come Edipo alla ricerca della propria identità – e condannato a tornare reietto proprio per il fatto d’averla voluta scoprire. L’unico a non porsi tormenti d’alcun genere è Max Shreck: sì, sa di essere senza scrupoli, ma non ritiene che ciò faccia di lui un mostro. (Forse, ha perfino ragione. Monstrum è ciò che stupisce e lui è fin troppo banale).  Eppure, ha un guizzo di umanità, quando si offre come ostaggio al posto del figlio. Anche questo momento è dato da un istinto animale.

            In una storia guidata dalla primordialità, con echi biblici, epici e mitologici, il finale non può che essere ineluttabile e grandioso. Di sicuro, non lieto.


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