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Siegfried nel Far West, ovvero Virtù e Fortuna

Trattando di Sentieri selvaggi, R. parlò di “morte del western”, per il venir meno di quel senso dell’ignoto che ne era l’anima. Parlò anche del virilismo e del razzismo indispensabili al genere. Django Unchained (2013; scritto e diretto da Quentin Tarantino) li ostenta entrambi e lo fa nel teatro più adatto: il Nord America del 1858, in piena economia schiavistica. Il titolo è asciutto e pregnante come quello delle tragedie greche. Esso ricorda per contrasto Prometeo incatenato. Di sicuro, anche qui viene narrato il mito di una figura titanica che si oppone alla “tirannide naturale e necessaria”.
Come si fa con ogni forma d’arte ormai esaurita, il film gioca a ricombinare i modelli del passato. “Django” è un nome arcinoto ai cultori del western: proprio poco fa, qualcuno mi ha menzionato la prima versione del personaggio, interpretato da Franco Nero, che ha offerto la propria partecipazione straordinaria anche per la pellicola di Tarantino. Se il primo Django era nero nell’abito, stavolta lo è di pelle –e, quanto a colore del vestiario, ama sperimentare da dandy nato. Anche la trama non suona nuova agli appassionati: una donna prigioniera/seviziata/da vendicare. Soltanto che, stavolta, è una schiava nera. E si chiama Brünnhilde (Kerry Washington), come la Valchiria punita per disobbedienza dal padre Wotan. Wagner, nel Far West, non si trova neppure troppo male. In questo scenario selvaggio, uno qualunque dei suoi eroi –e tanto più un ingenuo senza-radici come Siegfried – avrebbe spazio a sufficienza per svolgere il proprio dramma, o la propria commedia. Il regista, manco a dirlo, è un tedesco con un forte senso della teatralità. Se Wagner aveva realizzato l’arte totale nell’opera lirica, il dottor King Schultz (Christoph Waltz) fa la stessa cosa con la vita –un altro dandy nato. I saloon, le strade e le piantagioni di cotone fungono ottimamente da palcoscenico per lui –o, almeno, così sembra all’inizio. La cruda verità sfibrerà la tempra dell’abile vitaiolo, lo obbligherà a crollare sotto il peso di passioni vere.

 Il suo spirito teatrale, comunque, gli conferisce una leggerezza inaudita nel fare il dentista ambulante (un Dulcamara donizettiano) prima e il cacciatore di taglie poi. Si tratta, in fondo, dello stesso copione: rimuovere i denti guasti (dalla bocca o dalla società), con grazia e polso fermo. In fondo, Schultz –come egli stesso ama ripetere – non fa che eseguire una Legge: quella che vuole l’uomo responsabile delle proprie azioni. Poco importa che un ex-bandito stia spingendo l’aratro davanti al figlio: se avesse fatto lo stesso lavoro da giovane, anziché uccidere per avidità, sarebbe scampato al castigo. Non si scelgono le circostanze (Schultz farebbe a meno dell’endemico mercato di carne umana, se potesse), ma come muoversi all’interno di esse. Il dottore sceglie di liberare Django (Jamie Foxx) con un magnifico colpo di scena e di mettersi d’accordo con lui per un’onesta collaborazione. Allo stesso tempo, si interessa del giovane e del suo desiderio di liberare la moglie, punita e marchiata come lui per un tentativo di fuga. Lo fa perché conferire la libertà a qualcuno rende responsabili della sorte e delle azioni di costui. Lo fa perché, in Django, ha ritrovato quel Siegfried che è per lui un eroe familiare. Ci sono un po’ di patria e di somiglianza ovunque, a quanto pare. Dev’essere per questo che Schultz è antirazzista. Meglio lasciare la farsa del razzismo al prototipo del Ku Klux Klan, messo in crisi da un dettaglio di sartoria.

            Dal canto suo, come ogni eroe wagneriano, Django è duro e puro. Non conosce sofisticherie o compromessi. Il suo liberatore glieli insegna. Ma il risultato non sarà quello sperato. Il giovane non apprenderà l’elegante leggerezza della commedia. Rimarrà un personaggio da tragedia, un Übermensch magnifico e solitario. (Chissà se è un caso quella scena –verso la fine – che lo accosta alla “sorella” Black Mamba di Kill Bill). Perfino Calvin Candie (Leonardo Di Caprio) sarà costretto ad ammirarlo, ad onta del proprio razzismo pseudoscientifico. Ma, oltre la curiosità per l’eccezionalità, non riesce ad andare. Django è uno su diecimila e così si giustifica.
 Calvin non potrebbe mai stabilire una solidarietà con chi avesse un sangue troppo diverso dal suo, tant’è che la donna della sua vita è la sorella. Candie ha erudizione da sfoggiare, ma non profondità intellettuale. È francofilo senza saper parlare il francese e ignora che il suo autore favorito era nero. Ad onta delle sue teorie, il suo maggiordomo nero è talmente affine ai bianchi da essere più razzista di loro. Di serio rimane la domanda che ha spinto Candie verso la frenologia: perché non ci ammazzano? Perché quei forzuti giganti neri che l’hanno circondato per tutta la vita si sono sempre lasciati sfruttare? Lui lo spiega ricorrendo al determinismo fisiologico; parla di innata predisposizione al servilismo. Ma la replica di Tarantino a questa teoria è già stata data all’inizio stesso del film. È vero: Django è uno su diecimila, marchiato sia a titolo di maledizione che a titolo di eccezionalità. Però, i suoi compagni di sventura, posti al bivio tra servilismo e libertà, non si sono fatti pregare per scegliere la seconda. Come il Principe di Machiavelli, hanno fatto buon uso di Virtù e Fortuna. Ognuno di loro è un Django Unchained. E la platealissima Götterdämmerung finale seppellisce ogni pretesa di fondare il sopruso sulla natura.

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